Abbandonare il percorso prefissato con Pierluigi Consolandi, Co-founder e CEO di Dog Heroes

 

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Pierluigi Consolandi è CEO e Co-Founder di Dog Heroes, la startup che da un’alternativa naturale ai prodotti per l’alimentazione dei cani.

Come spesso raccontiamo nei nostri episodi, Pierluigi lascia il suo percorso nelle grandi società di consulenza, attratto dalla voglia di fare impresa. Ma è proprio la sua esperienza e preparazione a fargli fiutare il business.

Il mercato del petfood vale 1 Mld di euro in Italia e 10 Mld in Europa. Un settore enorme dominato da aziende che producono cibo secco o umido con vecchi metodi industriali.

È in questo spazio che che Pierluigi vede l’opportunità di lanciare Dog Heroes nel 2020.

La startup parte con un primo finanziamento in pre-seed di 400mila euro da Gregoire Desforges, tra i co-fondatori della startup insieme a Marco Laganà. La mission è produrre e consegnare a domicilio cibo per cani, naturale e con un metodo casalingo. Le confezioni sono cotte sottovuoto in forno, abbattute, surgelate e spedite in tutta Italia tramite modello a subscription.

La startup quintuplica il suo fatturato nel suo secondo anno e nel 2021 chiude una raccolta da 1 Mln di euro, dei quali 650 mila da crowdfunding e gli altri da fondi e investitori privati.

Nel 2022 Dog Heroes ha raggiunto oltre 8 mila clienti e iniziato a differenziare i suoi modelli di business. 

Grazie al suo laboratorio di produzione da 1000 mq rifornisce anche altre aziende, diventando una dark kitchen di cibo fresco per cani. E nel 2023 Dog Heroes si appresta a lanciare i suoi freezer per la distruzione direct to consumer.

Come ci racconta Pierluigi, quando si lancia una startup si deve essere pronti al peggio. La sua storia ci insegna che conoscere attentamente il mercato e le sue tendenze è uno dei modi migliori per ridurre i rischi prima di lanciarsi.

 

Pierluigi, sei nato e cresciuto a Roma con una mamma che ci hai descritto come molto protettiva. Secondo te, in che modo ti ha influenzato essere cresciuto in un ambiente in cui eri molto coccolato. Sei figlio unico, vero? Quindi molte attenzioni su di te.

Sì, figlio unico, mamma del sud, quindi assolutamente ambiente molto protettivo, massima attenzione alle mie necessità, ai miei interessi, quindi, molto seguito. L’infanzia mi ha visto proprio crescere in una comfort zone, quindi un ambiente di massima tranquillità in cui potessi esprimermi al meglio, forte e sicuro di avere delle persone al mio fianco che mi supportassero. Il corso della mia vita è stato forzato a uscire e sfidare questa comfort zone in cui sono cresciuto nei primi anni.

Secondo te, il fatto di aver avuto una comfort zone così importante è stato un vantaggio, o quando poi ti imbatti con la vita vera, i problemi, nel dover gestire tutto…magari non sei stato formato per gestirli, perché magari qualcuno faceva le cose per te? Come la vedi, visto che l’hai vissuta da un lato abbastanza estremo?

Adesso da adulto e da papà la vedo in maniera differente. Per me è importante affrontare la vita reale dall’inizio, perché ovviamente più anni di esercizio hai nella realtà, meglio sei pronto ad affrontare nel corso della tua vita, quindi, la mia idea è quella di cercare di far crescere una persona in quello che sarà il contesto del futuro. Questo dovrebbe essere probabilmente il modo migliore per far crescere un bambino, però capisco anche la necessità e la voglia di proteggere una persona a cui tieni…e tu sei anche contento di vedere tutto questo affetto, questa ricerca della tua attenzione. Ci sono dei pro e dei contro.

Te lo chiedevo perché ho letto questo libro che si chiama Untamed, che mi è piaciuto molto, su come crescere i figli, perché poi ognuno ha la sua filosofia, le sue teorie, quindi è interessante vedere se avessi replicato il modello che hai ricevuto o se avevi un metodo diverso. Finito il liceo hai deciso di rimanere a Roma per iniziare l’università. Quando hai iniziato a sentire il bisogno di uscire di casa e cercare la tua strada? E come si è manifestato questo tuo bisogno?

Diciamo che fino al liceo, appunto, forte della comfort zone di un ambiente di compagni…ero molto tranquillo e ancora non avevo ancora sviluppato un’idea di quello che potesse essere il mio futuro, quindi, ho detto “iniziamo una facoltà che mi stimola, quindi nell’ambito economico, però facciamolo nel contesto di casa”. Ho iniziato facendo l’università a Roma e verso la fine…poi nel contesto universitario ti confronti con persone nuove, inizi a vivere la competizione, la voglia di migliorare, di essere una persona migliore alla fine del percorso rispetto a quella che ha iniziato. Quindi, nell’ultimo anno del percorso, probabilmente in occasione della preparazione della tesi, ho detto “ma quale potrebbe essere lo step successivo? Visto che ormai l’ambiente di Roma l’ho vissuto, ho avuto modo di rapportarmi ad altre persone del mio contesto. Probabilmente è arrivato il momento di uscire da questa comfort zone che ha caratterizzato i miei primi vent’anni”. Quindi ho deciso di fare la specialistica a Milano e di vivere una vita totalmente diversa da quella che avevo fatto fino a quel momento.

Infatti sei andato alla Bocconi, dove hai fatto la specialistica, e poi hai iniziato la tua carriera nel mondo della consulenza strategica, dove sei rimasto 8 anni, passando tra 3 società diverse di consulenza. Ci puoi dire i pro e contro di questi anni?

L’ambito universitario lo ricordo…in due anni, seppur l’impatto sia stato molto rapido e la necessità era quella di tenersi al passo con gli altri che magari avevano già avviato il percorso in quell’università da 3 anni, mi ha richiesto di velocizzare l’inserimento. Però, appunto, il cambiare la mentalità, il portarsi da un’università teorica a un’università pratica orientata all’inserimento nel mercato del lavoro è stato fortissimo, è stato l’impatto decisivo che poi ha segnato gli anni successivi. Lì ho avuto anche la fortuna, e anche lo stimolo e la curiosità personale, di voler iniziare a lavorare nel settore più interessante e stimolante, a mio avviso, che è quello della consulenza. Diciamo che è il miglior battesimo per una persona curiosa che vuole ancora studiare molto, capire quale può essere poi il settore di riferimento in cui crescere. La consulenza è un’opportunità grande per tutti i giovani, che ti consente ogni tre mesi di cambiare team, di cambiare tipologia di progetto, di cambiare cliente. Si ha la possibilità di imparare tantissimo in poco tempo e, quindi, seppur lo stress sia molto, perché bisogna arrivare a un risultato, di progetto in progetto, c’è veramente la possibilità di diventare una persona rotonda e di essere formato a 360 gradi, di sapersi muovere in maniera molto agevole e flessibile da un tema all’altro. Quindi è stato fondamentale l’avvio e la scelta della consulenza.

Siamo passati un po’ veloci su questa prima fase della tua vita, perché arriveranno molti step interessanti e ce n’è uno in particolare che ci piacerebbe esplorare con te, che è questa scelta di mollare tutto, perché effettivamente sei passato da questa carriera avviata in consulenza, dove avevi un percorso molto segnato, anche se avevi cambiato varie società…e, a un certo punto hai proprio sentito il bisogno di fare un cambiamento. Questo cambiamento, non solo professionale, ma è proprio scaturito dal tuo bisogno di fare un cambiamento interno. Ci puoi raccontare? Vogliamo un po’ esplorare questo bisogno di cambiare, perché pensiamo che sia un tema che molti vivono e non tutti sanno come affrontare. Ci potresti raccontare come vedevi la vita a quei tempi, prima di cambiarla, quando eri ancora nel tuo percorso avviato? Ci hai raccontato anche che, dal punto di vista personale, avevi una ragazza da 5 anni, sembrava che tutto fosse predestinato ad essere quello che già era. Ci puoi descrivere anche che sensazioni hai vissuto che ti hanno dato voglia di cambiare? C’è stato qualcosa che ti ha fatto capire che c’era qualcosa che non andava?

Sì, se prendiamo la mia vita di quegli anni, guardandola dall’esterno, sembrava una vita avviata su un percorso ben definito, quindi una crescita professionale da una parte, una relazione consolidata dall’altra. Però era una vita che mi ero cucito io addosso, perché erano scelte che avevo fatto io, ma preso dalla frenesia, dalla voglia di fare il proprio percorso…sicuramente negli anni che vanno dall’università ai primi 10 anni di lavoro, tu diventi più la persona che sei rispetto alla persona che hanno formato i tuoi e il contesto dei primi anni. È importante, secondo me, per tutti, fare un checkpoint interno e dire “il momento che sto vivendo rispecchia già la persona che sono io o rispecchia ancora la persona come è stata formata?”. Io vedevo questo squilibrio tra la persona che ero in quel momento, che aveva esigenze differenti dalla persona formata…ti trovi un bel lavoro, ti guadagni le tue soddisfazioni, una relazione stabile, tranquilla, serena con una persona che è come te, ha voglia di lavorare, si rispecchia nei concetti di famiglia…iniziavano un po’ a stridere i due concetti. Ovviamente non bisogna cambiare nel momento in cui ti fai qualche domanda, inizi a respirare la necessità di fare un passo indietro e guardare dal lontano quello che stai vivendo, ma l’importante è darsi degli obbiettivi ben definiti, cioè se hai 12 mesi in cui uno testa quelli che sono i propri sentimenti e le proprie necessità e poi prendere delle decisioni. Le decisioni vanno prese perché se no si protrae una condizione di conflitto interiore che poi fa male sia a te, sia alle persone che vivono con te, e anche nel lavoro. Quindi io mi sono dato un periodo di tempo in cui testare questo malessere interno e con un’esperienza estiva che vi ho anticipato, ho accelerato ancora di più il cambiamento.

Ci hai raccontato che questa esperienza…hai deciso di andare al Burning Man, che sono sicura quasi tutti conosceranno, ma per chi non lo conosce, è un festival di musica nel deserto, dove c’è anche un mondo un po’ tech che decide di andare lì per una settimana e vivere una vita completamente diversa, perché non ci sono soldi. Insomma ce lo racconterai meglio tu, perché io non ci sono mai stata. Cosa è stato importante di quella decisione, di dire io vado in questo posto? E cosa ti sei portato dietro da quell’esperienza? C’è stato un cambiamento reale una volta tornato?

Secondo me il Burning Man è la massima espressione di libertà ed era proprio quello che volevo io, cioè volevo fare uno step back e riprendere la mia libertà. Quella è stata l’occasione per guardare il mondo in maniera serena, perché il festival si svolge nel deserto del Nevada, senza cellulari, senza la connessione internet, quindi finalmente si rivivono le relazioni, si rivive la bellezza di essere insieme ad altre persone che vogliono divertirsi, essere felici, che vogliono fare quello che sentono di fare. Tutte queste esperienze hanno accentuato in me la ricerca di quello che volevo fare. Vedere tante persone che vogliono essere libere e vogliono fare la cosa che gli piace è quello che anche noi dovremmo fare nel quotidiano, cioè non dovremmo vivere una vita che ci è cucita addosso, ma dovremmo avere la forza, cercare di fare quello che ci piace fare. Dopo questa settimana incredibile, vissuta come un bambino al luna park per la prima volta, che vuole sperimentare, godersi ogni momento della giornata, torno a casa con una decisione maturata: quella di definire una tempistica esatta entro cui lasciare il lavoro, poi nel mio caso terminare anche la relazione, proprio per voltare pagina e iniziare il terzo capitolo della mia vita, che è quello da imprenditore e, quindi iniziare a prendermi, da una parte, i rischi e le responsabilità di iniziare un business da zero, ma dall’altra avere la libertà di lavorare per se stessi, creare un oggetto unico, che si ha la possibilità di migliorare giorno dopo giorno. Quindi decido di fare questa esperienza e sono pienamente convinto proprio grazie a questa vacanza, diciamo.

Ti riporto un attimo su questo punto, quest’idea che stavi vivendo una vita come eri stato formato e non la vita che volevi veramente. Ti sei mai interrogato sul perché sei arrivato a un punto di rottura, di voler proprio voltare pagina e, come dicevi, iniziare un nuovo capitolo? Hai consigli da condividere su questa cosa di testare i tuoi sentimenti? Non so se ci sono consigli che ti senti di condividere per chi si trova in una situazione simile o che sta vivendo simili sensazioni.

Sì, il mio consiglio è di cercare di fare delle scelte con un rischio calcolato. È impossibile cambiare senza avere dei rischi, ma è possibile, invece, cambiare avendo dei rischi calcolati. Nel mio caso passare da lavoratore dipendente a imprenditore richiedeva comunque un percorso, anche formativo, di un certo tipo. Il lavoro della consulenza, più anni in consulenza mi hanno portato ad avere un backgroud e, quindi, la scelta è stata “qualora il mio business dovesse andare male, ho comunque 8 anni di carriera alle spalle, non parto da zero, ho la professionalità, ho qualcosa per farlo in maniera serena”. Questo è il consiglio che do: cercare sempre di prendersi un rischio calcolato, non prendere delle decisioni folli e overnight, perché poi si possono avere molti rimpianti. Invece è proprio nel tempo che uno deve costruire e se sente di dover cambiare direzione, di prepararsi per il cambiamento, di darsi dei tempi ben definiti per il cambiamento e poi fare il cambiamento, però è importante il percorso di preparazione, perché altrimenti sarebbe una scelta da matti e nessuno vuole fare una scelta da matti. Questo è il mio consiglio.

Ora ne parleremo, ma appunto, a proposito dei rischi calcolati non è che tu sei tornato da Burning Man e hai dato le dimissioni e hai iniziato una startup. Ci sono stati dei momenti di overlap in cui hai messo le basi della tua startup prima di mollare tutto. Ci puoi raccontare, tornando all’aspetto professionale, di questa scelta, perché fare l’imprenditore? Che idea avevi? Avevi già un’idea? Cosa sono le prime cose che hai fatto una volta tornato, dicendo “ora voglio mettermi una posizione di poter lasciare il lavoro da consulente tra X mesi”? Cosa pensavi, avevi altre idee, eri convinto che sarebbe stata una startup?

Lì ho maturato l’idea di lanciare un business. Come sono passato da consulente a imprenditore? Proprio come un consulente vero e proprio farebbe, cioè analizzando le realtà di maggiore successo a livello internazionale. Io ho lavorato sempre nel mondo retail e consumer goods, quindi ho detto, nel momento in cui voglio fare l’imprenditore, mi piacerebbe farlo in un mondo consumer goods, quindi creare un brand, creare una realtà che si identificasse con un prodotto, con una community di utenti che utilizzano un prodotto, e quindi ho avviato proprio una fase di studio delle startup che operassero in settori ad alto potenziale, e il mondo del cibo per cani mi è sembrato il settore perfetto. Nel momento in cui io ho effettuato il mio studio era in atto una forte ondata di cambiamento in America, con una società che ha portato sul mercato l’alimentazione casalinga, che era in forte contrapposizione con tutto quello che era sul mercato fino a quel momento, quindi il cibo secco e il cibo umido. Questo mi sembrava la proposta perfetta nel settore perfetto da portare in Italia. Italia che ha un mercato che vale 1,3 miliardi, se consideriamo il cibo per cani, 8 milioni di cani. Quindi, di nuovo, un rischio calcolato, perché il mercato comunque è importante e in quel momento non c’era ancora una realtà che offrisse nel nostro mercato un servizio del genere. Di nuovo, il rischio calcolato di avviare un’attività in un settore che comunque è importante, con alte prospettive di crescita. Da lì, chiusa la fase di ricerca del settore e tipologia di business, è partita la fase di business plan e ricerca fondi.

Una cosa interessante di questa maniera di lanciare un business che è molto da consulente, come hai detto tu, molto analitica, è come…lo chiedo perché anche io ho un consumer business, però viene da tutt’altro, non da analytics, ma più dalla passione…ti chiedo come fai a rimanere appassionato a un progetto, quando magari hai trovato il settore, il business, puramente per trovare qualcosa che avesse un’opportunità di grande crescita?

Diciamo che il passaggio da un business model, PowerPoint, a come fare le cose…dal momento in cui tu inizia a fare le cose, quindi passi dalla carta al pensare al nome del brand, pensare ai colori, pensare al modello di business, come fare il cibo, se farlo internalizzato o esternalizzato, i processi…comunque diventa tuo figlio, perché un conto è prendere l’ispirazione, e un conto è, giorno dopo giorno, prendere tutte queste piccole decisioni, dalla prima che è appunto la scelta del nome del brand. Non puoi rimanere indifferente, diventa il tuo bambino e tu prendi scelte, giorno dopo giorno, che poi incideranno sul percorso, su quello che fai. Secondo me il business plan iniziale o il pitch iniziale è importante, ma solo come punto di partenza, poi è come lavori tu, il team, che definisce quello che è la società

Ci hai parlato di numeri prima, della taglia del mercato. Cosa ti piaceva, però, di questa idea in particolare, e che opportunità hai visto?

L’idea che mi piaceva era l’idea di avere la possibilità di andare a colpire un pubblico, quindi i padroni dei cani, che sono molto attenti alle esigenze del proprio cane, quindi andare a intervenire in un settore in cui la relazione uomo-cane si sta elevando. Il cane non è più un animale da compagnia, ma è un membro della famiglia. Poter velocizzare questo passaggio, contribuire portando qualcosa di nuovo e quindi portando, con il nostro cibo human grade, il momento del pasto a qualcosa di simile a quello che fa il padrone del cane, era il massimo dell’opportunità. Poter contribuire in questo passaggio, essere proprio una parte integrante nella cultura italiana del portare il cane sempre più vicino alla quotidianità dell’umano, non è solo un’opportunità di business, ma anche un’opportunità culturale ed emotiva unica.

Quindi quando hai deciso che avresti lanciato una startup in questo settore, avevi identificato la size del mercato, avevi fatto le tue analisi, ti sei licenziato subito dal lavoro o hai lavorato su due progetti per un periodo? Come hai trovato poi il tuo co-founder e i soldi per partire?

Quando ho trovato il settore, ho iniziato una fase in cui mi ritagliavo delle ore giornalmente dai progetti di consulenza per studiare e approfondire la tematica. La consulenza però è un settore che richiede molto sforzo e quindi ho interiorizzato subito la necessità di dover prendere una scelta. Non potevo lanciare il business essendo ancora un consulente, quindi, nel momento in cui trovo l’opportunità, ne parlo con un mio ex collega che decide di finanziarla, quindi finanziare il lancio dell’iniziativa. Realizzo il business plan e poi, tramite un amico in comune, conosco Marco, che è il co-founder operativo, il mio socio in Dog Heroes. Questo amico in comune a cui parlo ed espongo il mio progetto, perché anche lui aveva una startup, Foorban, mi dice “c’è un ragazzo che lavora con me, che mi ha parlato di questa idea, vi posso mettere in contatto, così magari vi confrontate”. Da lì ho conosciuto Marco, con cui si è creata subito un’ottima connessione, anche perché il nostro background è differente e perfettamente complementare. Io vengo da una formazione economica, da consulente, lui invece ha studiato design, ha fatto l’imprenditore nel mondo calzaturiero e poi ha seguito i primi anni di Foorban nella parte di sviluppo del marketing e della comunicazione, quindi era il fit perfetto. Tipicamente le startup nascono da due persone che lavorano insieme e che quindi hanno lo stesso background e che sviluppano la volontà di fare qualcosa. Questo magari nelle dinamiche quotidiane può creare una sorta di sovrapposizione di competenze che magari non è necessaria. Poi sta spesso nell’abilità dei singoli di ritagliarsi delle aree e poi dedicarsi a quelle aree, nonostante il background sia lo stesso. Nel nostro caso, invece, non è stato così. Per continuità, Marco ha seguito la parte di branding, di marketing, di comunicazione e io mi sono focalizzato sul resto. Sono stato molto fortunato proprio perché abbiamo avuto questo fit perfetto. Nel momento in cui parlo con Marco e anche lui decide di lanciarsi nell’idea, e avevo il mio ex collega che era disposto a finanziare l’iniziativa, e avevo già realizzato il primo business plan, annuncio alla mia ex società di consulenza di voler cambiare. Lo faccio con mesi di anticipo, porto a termine il progetto che stavo facendo. A maggio fondiamo la società, io termino a luglio, colgo l’occasione per andare nuovamente al Burning Man per completare e ringraziare questo percorso quest’anno che mi ha portato a un grande cambiamento, e da lì inizio a dedicarmi anima e corpo alla nuova iniziativa.

Una cosa che volevo aggiungere per i nostri ascoltatori, che ancora nessun imprenditore che abbiamo intervistato lo ha fatto, ma in certe aziende si può chiedere un anno sabbatico o sei mesi sabbatici, e potrebbe essere un buon modo di testare per fare l’imprenditore, senza aver lasciato il lavoro, perché so che a tante persone fa paura lasciare il lavoro e la sicurezza di uno stipendio o di un lavoro a tempo indeterminato. Volevo fare questo solo come passaggio. Si può sempre chiedere…se tanto comunque uno si sarebbe licenziato, tentar non nuoce. Invece, tornando alla tua esperienza e ai soldi che ha messo questo tuo collega per partire, quanti erano? E, soprattutto, il tuo business model era comunque di creare questo cibo per i cani, quindi avere i macchinari…spesso nel mondo del consumer food si può outsource e andare da produttori che già fanno quello in private label. Come mai avete deciso di produrre voi fin dall’inizio e di quanti soldi avete avuto bisogno per partire?

Questo investimento del mio ex collega è stato diviso in due tranche: 150.000€ per realizzare il sito e far partire la macchina, quindi trovare le prime persone e avviare la parte di produzione e poi un completamento di questo pre-seed nel momento in cui avevamo lanciato l’iniziativa e vedevamo l’opportunità di poterla sviluppare. Per quanto riguarda il business model la nostra è stata, da una parte, una scelta ponderata, dall’altra vincolata. In alcuni paesi, ad esempio la Francia, chi produce cibo per umani può produrre anche cibo per cani, invece in Italia le regolamentazioni prevedono una netta separazione tra le due attività. Essendo il nostro un nuovo settore, un nuovo processo produttivo per realizzare la dieta casalinga, non c’erano neanche tante possibilità per farsi produrre il cibo da terzi. Dall’altra, la scelta ponderata è stata…avere la produzione all’interno è un asset, è un valore ulteriore della società, che dovrebbe garantire anche una tranquillità, una continuità del business a chi si approccia a un eventuale investimento nella società stessa. Per partire in modo flessibile abbiamo preso delle persone e alcuni macchinari, lavorando però in un laboratorio di terzi che faceva un’altra lavorazione di cibo per cani, quindi con minore investimento abbiamo iniziato a imparare a fare il cibo per cani, abbiamo iniziato a fare piccoli investimenti in alcuni macchinari che mancavano in questo laboratorio, e ci siamo costruiti così il nostro know how piano piano. Nel momento in cui eravamo diventati più grandi del personale proprietario del laboratorio, abbiamo dovuto trasferirci nel nostro laboratorio che adesso è a Settimo Milanese.

Anche lì step by step, siete prima andati nel laboratorio di qualcun altro. In quel momento, quando hai deciso di lanciarti e sei partito, le persone attorno a te, i tuoi genitori che sicuramente erano fierissimi della tua carriere molto avviata e sicura in consulenza, come hanno preso questa decisione?

È stato un momento molto complicato perché raccontare e provare a far capire le emozioni o gli obiettivi che avevo in testa io a delle persone che sono abituate a un mondo tradizionale, ben inserite negli schemi di trovarsi un buon lavoro e fare una famiglia…è stato molto difficile anche perché far capire il potenziale di un business nuovo non è facile, soprattutto a chi non è stato imprenditore, quindi ho avuto dei mesi abbastanza complicati, dove cercavo di spiegare nel limite del possibile quello che volevo fare. Cercavo di tranquillizzare anche i miei, dicendo “ho fatto una scelta con rischio calcolato, voglio fare questo, datemi il mio tempo. Vi ho dimostrato comunque che negli anni passati di essermi creato delle competenze. Sono pronto, eventualmente, a ripartire nel caso non dovesse andare”. Ho chiesto il mio tempo, da una parte, ho cercato di spiegare, dall’altra, ma non è stato assolutamente facile. Per tutti quelli che vogliono affrontare il percorso, siate pronti, preparatevi al peggio. Da imprenditori bisogna sempre prepararsi al peggio, mettersi l’elmetto ed essere pronti ad avere la pioggia battente tutti i giorni, dover risolvere problemi, dover affrontare situazioni incerte e negative per lungo tempo. Quindi bisogna essere pronti al peggio. Se uno pensa al peggio, riesce ad affrontare tutto quello che viene; se parti con la convinzione che andrà bene, rischi di prendere dei contraccolpi.

Non c’è pitch più difficile che dire ai tuoi genitori “lascio tutto e faccio una startup di cibo per cani”.

Non avendo mai avuto un cane. Marco, il mio socio, l’ha avuto. I miei genitori mi hanno subito detto “tu non hai neanche mai avuto un cane”, quindi è stato veramente complicato.

Il pitch ai genitori è tosto, sì.

Più degli investitori, forse.

Sì, almeno gli investitori capiscano.

Sì, capiscono, vedono i numeri, vedono l’opportunità, vedono che tu sei una persona competente, capiscono che ci hai lavorato, hai approfondito molto il tema. I genitori…

Come hai vissuto la vita da imprenditore inizialmente? Era quello che ti aspettavi, era meglio, era peggio? Hai avuto dei momenti di dubbio, rispetto al fatto che magari non stavi facendo la cosa giusta?

No, assolutamente. Io, facendo questa scelta, ho tirato il freno a mano, come vi ho raccontato. Tutti i miei peer o le persone che mi frequentavo continuavano ad andare avanti nel loro percorso, avevano un determinato stipendio, quindi benefit, uno stile di vita a cui ero abituato anche io, però a quel punto ho avuto la necessità di riprendere un coinquilino nella mia casa, proprio per avere una fonte di ricavi e gestire al meglio il mio budget mensile. Ovviamente mi davo un minimo stipendio in fase iniziale per sopravvivere, però il fatto di non poterti più permettere lo stile di vita iniziale non è facile. Io quando ho iniziato avevo 32 anni, quindi comunque ero abituato a fare determinate cose, quindi i primi mesi sono tosti perché da una parte non hai ancora nulla di concreto tra le mani, dall’altra la certezza è che non hai più la disponibilità che avevi una volta, e quindi devi guardare avanti e devi lavorare con l’obiettivo di velocizzare questo processo di costruzione della società, proprio perché devi rendere concreto questo cambiamento che hai fatto. I primi mesi sono molto complessi e richiedono anche una preparazione mentale. Quello che ho fatto anche io nel corso del…proprio per uscire dalla mia comfort zone e prepararmi mentalmente alle difficoltà, alle sfide…ho visto un sacco di video motivazionali, mi sono studiato tutto l’ambito sportivo della competizione, dei sacrifici, stabilire quella timeline che ti consente di non farti distrarre, ma guardare dritto e quindi questo è il percorso che ho fatto e che mi ha aiutato nei primi mesi, che sicuramente sono stati i più difficili. Nel momento in cui inizi e non hai ancora realizzato niente, ti scontri già con i primi problemi, per esempio un nome che è già stato depositato da altri, quindi devi ripartire con il processo creativo. Sono banalità, ma che comunque all’inizio pesano.

Certo. Questo cambio di vita…è proprio per questo che raccontiamo il processo. Inès lo dice sempre, non lo si fa subito per i soldi, perché per un bel periodo è un grande sacrificio.

I soldi non li vedo adesso e non so quando li vedrò.

Esatto, bisogna anche prepararsi. Uno vede la fine del processo, quando tutto è andato bene, però ci sono anche questi momenti…anche se tutto va bene, comunque l’inizio è tosto, perché bisogna fare sacrifici e cambiare la prospettiva di vita, soprattutto se lo si fa dopo tanti anni di lavoro.

La cosa importante è il sapersi organizzare la giornata, perché all’improvviso ti ritrovi da un contesto in cui tu hai delle attività da fare, a un contesto in cui nessuno ti dice niente e tu devi essere bravo, devi avere l’abilità di project manager, perché altrimenti non vai avanti. Se non ti organizzi la giornata, non sai quello che devi fare, non ti scheduli bene le scadenze e le interdipendenze tra le cose che devi portare avanti, ti perdi. Questo è un altro aspetto fondamentale.

Questa, intervengo perché anche io la sto vivendo, forse è la parte più difficile. Certe volte hai solo voglia che qualcuno ti dica cosa devi fare o qual è la priorità, perché devi prioritizzare ogni momento ed è veramente difficile. Certe volte vuoi fare le cose che sai fare e le prioritizzi rispetto alle cose che sono più importanti e che però non sai fare, che spingi indietro. Per come la sto vivendo io, è una delle cose più difficili.

Sì, la cosa difficile è proprio bilanciare l’importante e l’utile. I due atti decisionali sono l’importanza e l’utilità, ci sono delle cose che devi fare, ma sono poco utili; ci sono cose che devi fare e che sono super utili e super urgenti. Devi essere bravo a combinare il tuo programma giornaliero e settimanale che ti consente di andare avanti, e spesso devi forzarti per non fare le cose che ti viene più facile fare, ma che servono poco e fare quelle più difficili. Come dice Jeff Bezos, prendere sempre le decisioni quando è mattina e si è più lucidi, e lasciare al pomeriggio le cose più automatiche e operative che devi fare, ma il cervello ha perso già la sua lucidità.

Parlando proprio di quello…abbiamo parlato un attimo del processo produttivo, ma ci puoi raccontare come vi siete organizzati per lanciare il brand? Perché, ovviamente, un brand directed to consumer ha tante aspetti, c’è il brand, c’è il marketing, il sales, la produzione, la distribuzione, il growth, cioè poi tutto questo deve crescere e il serpente si morde la coda. Ci puoi raccontare un po’ come vi siete organizzati?

Non è facile perché le cose sono state veramente tante e io ero partito anche cucinando le cose, perché da imprenditore devi fare le cose per capire quali sono le aree di miglioramento e quello che invece sta funzionando già bene. Devi sempre iniziare tu a fare le cose, perché devi prendere conoscenza dei processi che tu stai sviluppando all’interno della tua azienda. Noi siamo partiti testando giorno dopo giorno il nostro piccolo fornetto, i pasti, testando le varie cotture, facendo una prima fase di friends and family test, a cui abbiamo preparato gratuitamente i pasti; vedere le materie prime, le verdure tagliate della giusta dimensione per fare in modo che vengano ingerite dai cani di tutte le taglie. Ci sono tante cose che non puoi prevedere, ma solo una fase di continua sperimentazione e di continuo miglioramento ti consente di fare. Da una parte ci siamo studiati i processi produttivi, abbiamo trovato il laboratorio, abbiamo capito quali macchinari già c’erano e cosa mancava, abbiamo fatto dei piccoli investimenti e siamo partiti io e un’altra persona a produrre. Anche la parte di consegna l’abbiamo iniziata a fare noi, per farci conoscere all’inizio, per far vedere la volontà di conoscere i nostri clienti, di avere una relazione diretta, almeno in fase iniziale, quando i clienti sono pochi e si possono servire localmente. Dall’altro lato non avevamo competenze al nostro interno, quindi abbiamo trovato un’agenzia che ci potesse supportare nello sviluppo del sito e, lato performance marketing, ci siamo trovati a collaborare con un’agenzia esterna per strutturare un piano di spesa di quello che era il budget di advertising sui vari canali. La parte invece di branding, di identità, di comunicazione, la parte social e tutto quello che è free, l’abbiamo sempre fatto noi fin dall’inizio, perché Marco, appunto, ha le competenze. L’unica assunzione che abbiamo fatto è stata quella di un grafico, quindi Marco e il grafico hanno elaborato bene quella che era la nostra identità, il flusso di comunicazione; con l’agenzia abbiamo iniziato a strutturare la campagna di comunicazione rivolta ai clienti; con l’altra agenzia abbiamo strutturato il nostro canale di vendita che è il sito web. Piano piano siamo partiti con il nostro primo team, composto da me, Marco, un grafico, una persona operativa che si divideva tra produzione e consegne e un’altra ragazza che supportava un po’ il piano editoriale e faceva anche la customer care con i nostri clienti. Questo è stato il primo team.

Il modello è un modello subscription, per cui i proprietari dei cani si iscrivono e ricevono questo cibo a cadenza regolare per una questione di comodità, quindi ci vuole che il brand sia conosciuto, ma bisogna anche convincere questi proprietari di cani che è la scelta giusta invece di mangiare le crocchette, che questa è una scelta migliore. Su cosa avete investito per fare conoscere il brand e farlo crescere e raccontare un po’ la vostra storia?

Nel nostro contesto avevamo due sfide. La prima era rendere consapevoli i padroni di cani che da oggi c’era una nuova categoria di cibo rispetto a quella che stavano comprando nei pet store. Quindi, oltre al secco e all’umido, c’era una dieta casalinga fatta da qualcun altro, perché tutti conoscono la dieta casalinga come “io compro gli ingredienti, ho la ricetta del veterinario e lo preparo io”. Abbiamo lavorato su due fronti, il primo è fare arrivare a tutti la possibilità di acquistare una dieta casalinga da un’azienda; la seconda è quella di sviluppare il brand di Dog Heroes, quindi di renderci visibili come brand di riferimento dell’alimentazione sana e naturale. Quindi abbiamo lavorato su questi due fronti. Il primo aspetto, quindi la nuova categoria, lo fai anche confrontando i punti di forza del nuovo cibo rispetto a tutto quello che c’è stato nel passato; l’affermazione del brand, ovviamente, richiede molto tempo e inizialmente è importante metterci la faccia (chi sono le persone dietro a questa iniziativa). Se vuoi aprire le porte devi essere un’azienda trasparente, comunicare tranquillamente quello che fai, quindi noi, dall’inizio, abbiamo adottato una strategia di massima apertura su quelli che sono gli ingredienti del nostro processo produttivo. Anche sui social, far vedere tanto il prodotto, cosa che invece non fanno vedere tutti gli altri player che fanno cibo secco e umido. Se uno apre il social di un’azienda tradizionale, vede tutte foto di cani che corrono, ma il prodotto non si vede mai. Noi abbiamo riportato il prodotto sulla comunicazione, proprio perché non dobbiamo nascondere niente, il nostro è un prodotto è naturale, con ingredienti naturali, cotto sottovuoto in forno, abbattuto e surgelato per essere consegnato in tutta Italia senza problemi. La nostra strategia è quella di riportare il cibo nella comunicazione ed evidenziare i punti di forza rispetto a tutto quello che era presente sul mercato.

E poi, insomma, ovviamente, il lavoro di crescere una startup, l’abbiamo detto, l’hai raccontato anche prima, è totalizzante. Stai crescendo questo tuo bambino, stai investendo tantissimo. Avete visto che comunque c’era attraction, quindi le cose stavano andando bene. Nel 2020 avete avuto un anno un po’ tosto…anche tu personalmente, hai perso tuo papà. Stavate per chiudere un round di funding che non è andato, hai dovuto prendere delle decisioni abbastanza grandi, più tardi è nata tua figlia, quindi tutte queste cose personali che si aggiungono alla fase di lavoro. Ci puoi raccontare un po’ questo periodo, questa fase, come l’hai vissuta? Anche soprattutto il fatto che il funding round non sia andato…cos’hai dovuto fare?

Si è susseguita una serie abbastanza intensa di eventi. Il primo è stato la perdita di mio padre. Praticamente noi lanciamo l’azienda a fine novembre 2019 e a marzo 2020 scoppia il Covid. Da una parte tutti i business online lì hanno avuto una forte spinta, perché le persone non potevano più andare nei punti vendita, quindi dovevano ordinare online i prodotti che consumavano tradizionalmente, quindi c’era la possibilità anche per noi che eravamo alle prime armi. Abbiamo dovuto velocizzare un po’ di scelte, di processi…non avevamo ancora venduto su tutta Italia, eravamo ancora solo su Milano e abbiamo deciso di allargare a tutta Italia proprio per non lasciarci sfuggire l’opportunità, con tutte le conseguenze di un’azienda che è ancora alle prime armi e non ha ancora messo a punto a pieno i processi. Dall’altra, in quel periodo, proprio quando scoppia il covid, mio padre effettua un’operazione…proprio qualche giorno prima che scoppiasse il caso del covid e chiudessero le stazioni di Milano…che non va a buon fine. Quindi da marzo a novembre, il momento in cui è mancato del 2020, io ho dovuto lavorare con mio padre che ha subito in parallelo 6 o 7 interventi per cercare di recuperare la situazione, con la possibilità di non potermi muovere, non poter stare al suo fianco, dover seguire il business…non è stato assolutamente facile. Da una parte la startup mi ha anche aiutato emotivamente, perché mi ha tenuto impegnato in un momento molto difficile, ma non è stato assolutamente facile. Però, diciamo, anche io sono stato bravo, perché ho detto “questa è la mia vita, ho fatto una grande scelta, non posso lasciar perdere questo nuovo percorso che ho iniziato, perché per me sarebbe un forte step back e rischiavo di perdere mio padre e anche la mia nuova vita, quindi ho cercato di portare avanti tutte e due le cose, dedicando anche il tempo che potevo, compatibilmente con gli spostamenti, a questa situazione. Non è stato facile, però, anche questa situazione mi ha portato a essere una persona più forte, proprio perché recentemente con il crollo dei mercati finanziari, la guerra, lo scoppio della tech bubble…noi dovevamo fare un round di fundraising all’inizio del 2022, che è slittato. Mio padre, nella tenacia di andare avanti e di subire più interventi, mi ha dimostrato che non bisogna mai mollare per portare avanti quello che si è iniziato. Questo insegnamento che mi ha lasciato lui mi ha consentito di andare avanti in questa fase di difficoltà. Tutti gli eventi portano a qualcosa. Nel frattempo, come dicevi tu, per il secondo round avevo deciso anche di vendere la mia casa, mettere dei miei risparmi nella startup, proprio perché ci credevo tanto. Poi, poco prima che saltasse il round, eravamo arrivati all’ultimo colloquio con il VC…un mese dopo è nata mia figlia, quindi anche lì, emotivamente è stata una notte abbastanza difficile e insonne, proprio perché ho detto “adesso nascerà mia figlia con un papà fallito”. Po fortunatamente non è stato così, però, psicologicamente, da imprenditore, questo contesto complesso degli ultimi 3-4 anni, come non si è mai verificato prima, mi ha richiesto tanta forza di volontà e tanto impegno.

Devo dire che, in generale, le sfide del mercato sono state veramente tante, per chi ha iniziato nel tuo stesso momento, nel 2019. Se ci aggiungi questi momenti, che poi alla fine sono i più difficili della tua vita, cioè perdere un genitore, avere un figlio, che si accumulano a una strada dove sei tu la persona che prende tutte le decisioni, è sicuramente tostissimo. Grazie di avercelo raccontato. Invece, parlando di cose positive, c’è stato un momento o dei momenti in cui…quali sono le cose che ti hanno fatto capire “questa cosa funzionerà, vendo la mia casa, anche se non ho il funding round, perché credo veramente in questa idea”? Quali sono le cose che secondo te hanno funzionato e che funzionano di Dog Heroes adesso?

L’idea di base è la cosa che mi ha portato, da una parte, a fare il cambiamento e, dall’altra, nel fare le cose, nel vedere il prodotto come viene apprezzato, proprio perché è una nuova categoria, è qualcosa di nuovo per tutti, la qualità viene apprezzata da tutti perché si vede. Il valore di quello che fai è percepito e quindi dall’inizio non ho avuto dubbi. Il mercato italiano ha delle sfide, perché è un mercato più lento rispetto a UK, sia in termini di vicinanza del consumatore a delle logiche online…in particolare il consumatore è legato al negozio, alla relazione, piuttosto che alla possibilità di usufruire di determinati servizi. Da una parte ci sono dei risultati che, a causa del mercato, non arrivano così velocemente come se avessimo avviato l’attività in UK; dall’altra c’è stata la visibilità di aver creato un qualcosa che fosse veramente apprezzato dai clienti, quindi non ho mai avuto dubbi nell’investire una parte dei risparmi che avevo a disposizione, proprio perché vedevo giornalmente crescere gli ordini, crescere la soddisfazione dei clienti. L’idea di fondo si è dimostrata valida. Proprio l’altro giorno, al Super Bowl, la prima società che ha lanciato il cibo fresco per cani, ha fatto il primo spot di cibo fresco durante questo evento che è importante. Questo ci ha resi pieni di orgoglio, perché è bello vedere questo cambiamento, partito dall’America, che arriva nel momento di massimo raccoglimento di tutte le persone davanti alla televisione. Dà proprio l’idea di come il mercato sta cambiando completamente e sta cambiando anche in Italia.

Sì, ti confermiamo che entrambe, Camilla ed io, abbiamo io un cane e lei un gatto, che sono praticamente i nostri figli. Chiaramente l’America i Millennials…con il fatto che le generazioni hanno figli sempre più tardi, però cominciano ad avere quell’età in cui hanno un po’ di soldi, cominciano a spenderli sugli animali piuttosto che avendo un figlio a 25 anni. Ho sentito questo saying qui a Los Angeles sui Millennials che è: pets are the new kids, plants are the new pets, candles are the new plants. Perché ormai sono candele, piante e animali, tutte cose che uno cura, però non i figli, perché non ce la facciamo, non ci sentiamo mai pronti.

È vero. Adesso il cane è una grandissima responsabilità, non è una scelta facile, però sempre più persone fanno fatica ad avere un figlio, però il cane è un compagno che vogliono. È bello essere parte di questa relazione sempre più consolidata che si sta creando.

Se dovessi guardare indietro a questi ultimi 4 anni del tuo percorso, quali sono, secondo te, le decisioni che avete preso che hanno permesso a Dog Heroes di continuare a crescere? Ci sono delle decisioni che uno prende, dei bivi, dei momenti in cui hai rischiato a prendere una decisione…c’è qualcosa che puoi identificare che ha veramente funzionato?

Sì, allora, una scelta importante è stata proprio all’inizio. Noi eravamo partiti con un modello in cui il nostro cibo non era surgelato, ma fresco, e questo ci limitava molto la chef life, quindi anche la possibilità di lavorare su tutto il territorio e anche consegnare più cibo con la stessa spedizione. Dall’altro facevamo una porzione perfetta per singolo cane, quindi un cane aveva bisogno 265 g, un altro 362. La combinazione dei due aspetti non era assolutamente calabile e fortunatamente ce ne siamo accorti dall’inizio. Abbiamo deciso di produrre cibo surgelato da una parte e di raggruppare i fabbisogni calorici dei cani in dei cluster. Questo ci consentiva di non dover produrre più solo una volta che ricevuto l’ordine, ma di poter produrre in anticipo in base allo storico degli ordini e dei tassi di crescita. Questa è stata la decisione sicuramente più importante in termini di scalabilità.

Parlando di cani, infatti, sta ascoltando anche lui. Sarà d’accordo.

Sicuramente è interessato all’argomento. Dicevo, questa è stata una scelta fondamentale. Dall’altra una scelta molto importante, che si sta dimostrando pregnante, è proprio il fatto di avere puntato sull’internalizzazione della fase produttiva, tant’è che da fine 2022 abbiamo avviato anche una linea di business di private label, quindi produciamo anche per terzi, per una società inglese. Il fatto di aver mantenuto la produzione interna e averla potenziata, sta premiando anche come asset, quindi noi siamo un’azienda a tutto tondo. Nel momento in cui, eventualmente, qualcuno deciderà di acquisirla, è un’azienda che può vivere indipendentemente da…queste sono state le scelte principali e fondamentali per andare avanti.

Anche qui, Camilla, torniamo al modello b2b e b2c, perché, lo diciamo spesso, è uno dei pivot…cioè per voi non è un pivot, è stato solo aprire un nuovo canale, però spesso stiamo vedendo che molti b2c vanno nel b2b, oppure certi b2b vanno poi nel b2c, però la combinazione dei due sembra una cosa che può aprire molte opportunità. Invece adesso su cosa state puntando?

Noi proprio fra un mese e qualche giorno inizieremo a installare i nostri freezer nei pet store, quindi l’omnicanalità è un tema su cui punteremo anche noi nel 2023. A mio avviso il direct to consumer è la massima espressione della connessione che si può creare tra un brand e l’utente finale; è un modello di business che richiede anche capitali, perché comunque bisogna investire molto nel creare queste relazioni e nella capacità di mantenerle nel lungo periodo. La combinazione del mercato italiano, che ha dei tempi più lunghi, ha accelerato queste riflessioni sull’omnicanalità. Per noi è fondamentale, perché la possibilità di servire sia dei clienti che vogliono seguire una dieta, ma anche dei clienti che vogliono fare dei singoli acquisti e magari prendere una sola porzione per il sabato e la domenica, è una cosa da cui noi non possiamo prescindere. Noi dobbiamo servire tutti e ognuno con le sue necessità e lavorare su più canali è il modo migliore per farlo. Noi ci stiamo strutturando per lanciare anche i freezer e crediamo sia un passo fondamentale che ogni brand direct to consumer deve considerare. Nel nostro caso abbiamo anche il vantaggio che ad oggi nei pet store non c’è il nostro prodotto, è una prateria e c’è la possibilità di crescere. Se uno, ad esempio, ha un brand di cereali b2c e vuole entrare in GDO, la strada non è così facile, quindi…

Hai preso l’esempio della mia azienda, Pierluigi. Ti confermo…

Infatti, purtroppo, l’omnicanalità per alcuni può essere facile, per altri può essere difficile. Poi un conto è vendere facendo leva sui punti vendita già avviati di terzi, un conto è investire su un punto di vendita diretto. Quello è uno sforzo incomparabile rispetto a un canale b2c online…è molto delicato. Anche per noi sarebbe bellissimo creare il Disney store per cani, quindi il Dog Heroes store, però devi avere un assortimento particolare, completo, devi fare investimenti a fronte dell’avvio del negozio, magari 300.000 o 400.000 euro, dipende poi dall’idea che hai in testa. Bisogna considerare bene anche l’omnicanalità e bisogna avere la fortuna di lavorare in un settore che ti consente di farlo in maniera abbastanza agevole.

Sicuramente quello che dici tu…la differenziazione, cercare di trovare un prodotto…è più facile fare un pitch quando un’azienda non vende il tuo prodotto, piuttosto che quando c’è tanta competizione. Siamo arrivati alla fine della nostra intervista che concludiamo sempre con la stessa domanda, che faremo anche a te. In che modo la tua italianità, secondo te, ti ha aiutato nel tuo percorso?

Come italiano…e lavorando in un settore come quello del Food, l’attenzione al cibo, alla cultura del cibo, cioè la cultura che abbiamo tutti noi di pensare al cibo come forma preventiva nei confronti della salute, è qualcosa che ho portato nel mio business, quindi da italiano mi sento anche più forte nel proporre un cibo salutare per cani. È qualcosa che un domani potrebbe essere rivendibile con successo anche all’estero, quindi il cibo Made in Italy che è anche per cani, che diventa un valore anche per il cane. Questo è il primo aspetto. Da italiano mi sento anche di aver contribuito come piccolo lavoratore che crede che comunque non bisogna andare all’estero per avere successo, ma che crede ancora nel potenziale del nostro territorio e vuole farlo in Italia. Io credo molto nel nostro paese e voglio fare business nel nostro paese. Questo è un altro aspetto che tengo a sottolineare, perché c’è tanto da fare ancora, serve una nuova generazione che porti idee, realizzi idee e che sia brava nel farlo, perché stiamo costruendo il futuro dell’Italia.

Grazie Pierluigi, non potevamo finire su un tono migliore. Ti ringrazio per averci raccontato onestamente la tua storia e le tue difficoltà, che sono state tante, ma tutte seguite anche da cose molto belle. Come diciamo spesso, è una montagna russa e la tua forse sarà la montagna russa con più ups e downs molto marcati, però hai dimostrato una resilienza davvero incredibile nel tuo percorso. Quando dicono che gli investors investono nei founder è quando sentono storie così, vedono che grinta e determinazione hai…sicuramente è un grande valore avere una persona così alla guida di un’azienda, quindi grazie.

Grazie a voi!

Grazie mille!

 

 

 

 

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