Cosa si cela dietro il successo di Unobravo con Danila De Stefano, CEO e Founder

 

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Intervistando Danila De Stefano, CEO e Founder, di Unobravo leader europeo di servizi di psicologia online, una cosa l’abbiamo capita: per creare una startup di successo bisogna partire da un problema. 
Nel caso di Unobravo - anche se all’epoca Danila non sapeva cosa fosse una startup - è stato proprio un problema vissuto in prima persona a dare a Danila l’idea di iniziare da un semplicissimo sito web per risolverlo. 
Questo poi, con molto lavoro e dedizione, crescerà fino a diventare Unobravo: la Startup of the Year 2022 secondo startupitalia che porterà Danila a essere riconosciuta come Entrepreneur of the Year secondo Ernst & Young.
Poco dopo essersi trasferita a Londra, Danila ha l'intuizione di creare un sito per connettere italiani all’estero con psicologi italiani, proponendo sedute online. 
Si rende conto che l’idea piace e quasi non riesce a gestire le richieste.
Ma come si passa da un servizio/un sito a una startup? Nel caso di Unobravo grazie ad un programma di accelerazione.
La sua storia ci dimostra che, anche senza alcuna esperienza di impresa, per raggiungere il successo sono sufficienti la capacità di creare relazioni, concentrarsi sulle priorità e, ovviamente, l’arte di arrangiarsi.

 

Danila, sei cresciuta a Napoli e volevamo chiederti, è una domanda che facciamo spesso ai nostri ospiti, se ci puoi raccontare un po’ del contesto nel quale sei cresciuta, per esempio cosa facevano i tuoi genitori e qual è una lezione, una cosa che ti porti dietro della tua adolescenza, o una lezione che ti hanno insegnato i tuoi genitori che è ancora molto importante per te adesso.

Certo, volentieri. Io vengo da una famiglia di quattro, due genitori, mamma, papà e un fratello, più piccolo di me. Mio padre è sempre stato un impiegato, mia madre un architetto. Se devo sintetizzare una cosa che ho imparato da loro, che mi ha aiutato nel percorso che ho fatto, sicuramente è stato guardare mia madre libera professionista, che non è come essere un’imprenditrice, ma quasi, in quanto ci sono gioie e dolori dell’essere una libera professionista. Io ricordo distintamente momenti di gioia, dove c’era un bell’accordo, un bel contratto chiuso, e altri momenti, anche lunghi periodi, dove purtroppo non si lavorava. Quindi il rischio, l’approcciarsi al rischio, l’accettare, il tollerare il rischio, sicuramente l’ho imparato da mia madre che comunque non ha mai barattato la sua libertà…è questo che ha sempre detto. È una scelta che, ripeto, porta conseguenze positive e negative, in base a come la si guarda, e sono convinta che se sono così è anche grazie a lei.

Sapere già prima di lanciarsi nell’imprenditoria che ci sono questi alti e bassi, queste montagne russe…sicuramente arrivi con un po’ di preparazione psicologica a quello che può essere la vita dell’imprenditore, però ci arriveremo a tutto questo. Rimanendo un po’ sugli early days della tua vita, ci hai raccontato che da piccola facevi tante cose diverse senza però essere la migliore in nessuna e quindi ti sentivi di non sapere cos’era la cosa per te, non sapevi qual era il tuo posto nel mondo. Devo dire che leggendolo è un pensiero in cui mi ritrovo molto e penso che anche tante persone siano così, magari sei bravo in tutto ma in niente, invece vedi tuo fratello che è super sportivo, o tua sorella che è bravissima in matematica e dici “ma io cosa farò?”. E quindi ti volevo chiedere cosa ti ha aiutata ad uscire da quella mentalità e magari una domanda a cui è più facile rispondere: se potessi parlare alla te adolescente adesso, cosa le diresti su questo punto in particolare?

Sì, sono assolutamente d’accordo con te, è un qualcosa molto comune, è un qualcosa che come tante sofferenze, cose che pensiamo di noi stesse, non sempre lo esprimiamo ad alta voce quando siamo giovani, quando siamo adolescenti, soprattutto…quindi, per esempio, questa cosa l’ho incominciata a dire due anni fa, ma prima non la dicevo, quindi non ho mai avuto l’occasione di potermi confrontare con qualcuno, quindi vedere che era un qualcosa di super comune. Quello che io pensavo, e come giustamente hai detto, è che tutti intorno a me sapevano fare qualcosa. Io sapevo fare un po’ di tutto. Quando oggi parlo con persone che mi lamentano la stessa cosa, io dico “magari sei un manager”. Che cosa voglio dire? Ci sono gli specialisti e ci sono quelli che gestiscono le persone, che sono due cose molto diverse. Di solito un manager, ma anche un imprenditore, forse soprattutto un imprenditore, deve saper fare un po’ di tutto. Magari bene bene niente. Non è necessario per forza saper fare in modo eccellente qualcosa, ma invece, al contrario, essere molto settoriali, potrebbe non aiutare ad avere una visione che deve essere più a 360 gradi possibile, come quella di un manager, di un imprenditore, di un people manager. E quindi, se io potessi parlare con la me stessa adolescente, le direi proprio questo: “forse sei una manager, forse sei un qualcuno che non diventerà mai la persona più brava a fare qualcosa, quindi una persona eccellente in qualcosa, ma magari sarai una brava persona che riesce a connettere i fili, a connettere i puntini, a portare avanti un progetto dalla A alla Z”. Questo nel mio caso è diventato imprenditoria, quindi lanciare un progetto mio; in altri casi può essere management, per esempio.

Devo dire che ci sono, come dici tu, tante strade in cui essere un po’ bravi in tutto è molto utile, quindi non bisogna per forza che sia…secondo me è anche un po’ basato sullo stampino dell’idea che devi essere un avvocato, devi essere un medico, devi essere per forza qualcosa, quando in realtà nel mondo di oggi ci sono tante cose che si possono inventare e non c’è bisogno di essere un esperto, oppure lo diventi più in là, ma non c’è bisogno di esserlo a 15 anni quando molte di queste pressioni ci vengono imposte. Invece scegliendo l’università, hai deciso di fare una cosa…diciamo di diventare una specialista. Hai deciso di studiare psicologia. Cosa ti ha spinto in quella direzione? Cosa ti piaceva della psicologia? Perché hai scelto questa strada?

La psicologia mi ha molto affascinato quando l’ho scoperta, quindi è stato molto per passione. Mi ricordo che all’epoca molte persone mi dicevano “ma non lavorerai mai come psicologa…non ti piace proprio nient’altro?”. Quindi è stata sicuramente una scelta per passione. Una cosa che ricordo è che avevo paura di annoiarmi. Io sono sempre tuttora terrorizzata dalla noia, e parte il fascino che sicuramente la psicologia aveva su di me, pensavo anche che lavorando con persone diverse, con storie diverse, con difficoltà diverse, non mi sarei mai annoiata. Ed è vero, i pazienti non sono mai uguali, non troverai mai due pazienti uguali, perché le persone sono tutte meravigliosamente diverse e quindi, senza dubbio, è un lavoro che non annoia. Quindi, sia la passione, sia l’idea che sarebbe stata sempre una sfida, ed è vero, la psicologia è così.

E poi diciamo che ci hai aggiunto sfide sopra le sfide alla psicologia.

Sì, sì.

Durante i tuoi studi, durante gli anni dell’università, prima di diventare poi effettivamente psicologa e iniziare a lavorare, sei sempre stata convinta della strada che hai scelto? Appunto, mi ricollego un po’ alla cosa della noia, ti sei mai annoiata? Hai mai pensato ad altre cose che avresti voluto fare? Facevi mille altre cose intorno all’università? Che tipo di percorso hai avuto?

Allora, dubbi mai. Il dubbio è arrivato dopo, nel senso che più che dubbio, quando poi Uno Bravo è partito, ha cominciato a crescere, mi domandavo “cosa faccio? Resto psicologa? Mi trasformo in un’altra cosa?”. Però durante l’università non avevo dubbi, anzi, man mano che andavo avanti si formava sempre di più un’immagine di me che poi non è quella che è andata avanti, però di me che avrei avuto uno studio, tanti pazienti, volevo fare la psicoterapeuta. Quindi no, dubbi no, ma posso anche dirti che durante l’università, per esempio, ho cominciato a smanettare sul digitale. Sono sempre stata una persona molto smanettona, Google mi ha aperto porte che non credevo sarebbero poi svoltate nel mio lavoro attuale, ma per esempio organizzavo viaggi e vendevo viaggi online. Ero anche un’appassionata di viaggi e quindi, tramite programmi di affiliazione, guadagnavo i primi soldini prenotando viaggi alle persone. Sono diventata brava in quello, negli itinerari, nel cercare il prezzo più basso e quindi è stata una piccola deviazione che però vivevo come un passatempo, che mi divertiva, non come un qualcosa che doveva andare in sostituzione.

Dopo la laurea hai deciso di trasferirti a Londra. Come mai questa decisione? Anche perché per un lavoro come la psicologa, di solito sono lavori molto…sei un po’ obbligata a rimanere nel paese, perché sono esercitati in una certa lingua ecc. Quindi come mai sei andata a lavorare a Londra e com’è andato il trasferimento? Ti sei ambientata fin da subito?

Allora, nel mio caso, in quel momento della mia vita non avevo l’esigenza di trovare il mio posto domani, avevo più la voglia di fare esperienza, fare esperienze diverse e, anzi, è una cosa che consiglio a tutti, perché chiudersi in una sola cosa dà degli orizzonti un po’ ristretti. Il mio obiettivo era “voglio fare un’esperienza all’estero”, idealizzavo tantissimo Londra, l’Inghilterra, fin da adolescente. C’ero già tornata varie volte in viaggio e quindi volevo imparare l’inglese, perché lo vedevo comunque come un qualcosa di necessario nella mia vita al di là del fatto che volevo fare la psicologa. Avevo anche l’ottimismo di impararlo così bene da poter fare la psicologa poi nel paese, cosa che succede. Ci sono tantissimi psicologi italiani che lavorano in Inghilterra. Quindi l’ho fatto per un’esperienza di vita. Mi sono ambientata subito? Assolutamente no. Londra è una città un po’ difficile, perché è molto grande, ha tantissime persone, ma gli spazi sono molto distanti, quindi anche se per miracolo fai amicizia e trovi delle persone che ti piacciono molto, nel migliore dei casi sono a un’ora di distanza da te, perché Londra è veramente grande. È uno stato, non è una città, è veramente troppo grande. Soffrivo questa cosa, oltre ai costi molto elevati, quindi facevo una vita molto sacrificata, in stanze molto piccole, con altre persone in casa. Una storia che hanno vissuto in tantissimi e io l’avevo vissuta già da universitaria, però l’integrazione, senza ombra di dubbio, è molto difficile in queste città così. Tra l’altro è stato uno dei ganci che poi mi ha portato a cercare uno psicologo in Inghilterra ed è stata una delle prime cose che mi ha avvicinato a quella che è poi stata l’idea di Unobravo.

Sì, infatti ci avevi detto che trovare uno psicologo a Londra è stato abbastanza difficile. Ci racconti un po’ di quella ricerca iniziale, delle difficoltà che hai incontrato?

Sì, volentieri. Allora, come dicevo, gli psicologi italiani a Londra ci sono, sono anche tanti. Ovviamente la doppia lingua, la competenza, il fatto che non siano migliaia, se lo fanno pagare molti di loro. Non tutti, ma molti di loro, quindi nel momento in cui ho detto “sai cosa? Ho bisogno di un sostegno per me stessa”, mi sono scontrata o con agende già piene, quindi non potevano accogliermi; oppure con liste d’attesa (“credo di liberarmi tra due mesi”); oppure con prezzi esorbitanti, quindi qualcuno era ancora disponibile ma aveva prezzi che non erano compatibili con il mio primo stipendio. Quindi sì, questo è stato un po’ il primo semino da cui è nata l’idea, ovvero: c’è chiaramente uno o più ostacoli a entrare in contatto con uno psicologo in un caso in cui se ne abbia bisogno, ma non ci si trovi nelle condizioni ottimali. Le condizioni ottimali possono essere “vivo al centro di Roma, faccio un orario normale, quindi alle 17.00 finisco di lavorare e quindi posso andare nello studio di uno psicologo”. Se non ci sono queste condizioni, quindi vivo all’estero, vivo in periferia, non ho orari di lavoro comodi per potermi organizzare, potrei non riuscire ad accedere; oppure intorno a me ci sono solo costi proibitivi, quindi non posso accedere. Quindi, insomma, da lì si cominciava a formare la chiara cognizione che c’era proprio un buco tra le persone che volevano accedere a uno psicologo che non avevano queste condizioni intorno a loro, e chi invece poi riusciva. C’era proprio un vuoto che, ripeto, all’epoca era solo un’intuizione, che poi è diventato un progetto.

Infatti la tua intuizione ti ha poi portato a offrire i tuoi servizi da psicologa agli altri italiani all’estero online, se non sbaglio. Cos’hai imparato? Perché mi sembra che lo hai fatto per qualche anno, quindi cos’hai imparato da quella esperienza? E facendo la psicologa online hai poi dovuto lasciare altri incarichi che avevi per questo progetto?

Sì, volevo fare esperienze diverse a un certo punto. In quel periodo mi stavo anche abilitando come psicologa, quindi si stavano allineando un po’ di pianeti, ma poi è successo che ho fatto un viaggio da sola in Centro America, come volontaria. Lavoravo in questa sorta di resort, fatto di casette sugli alberi, veramente molto carino, e insieme a me c’erano altri volontari che erano tutti nomadi digitali, che adesso è un qualcosa che sentiamo più spesso, ma all’epoca (4 o 5 anni fa) non si conoscevano. Io rimasi affascinata dal loro modo di lavorare. Loro viaggiano e lavorano, riescono a fare entrambe le cose. Io sapevo che in quel momento della mia vita non volevo viaggiare, ma mi sarebbe piaciuto tantissimo creare qualcosa di mio, magari digitale, così da non avere 25 giorni di ferie all’anno, per esempio…un po’ tornando al discorso di come vedevo vivere mia madre, che è una cosa che avrei voluto raggiungere anche io in qualche modo. Quindi, sì, ho cominciato a lavorare come psicologa online, perché è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. Cosa posso fare? Ho scoperto che la terapia online esisteva. Un’altra cosa che oggi sembra banale, ma all’epoca non la faceva nessuno. Io ricordo quando ho cominciato a smanettare per capire “come faccio a sponsorizzarmi? Come si fanno a raggiungere potenziali clienti?” e io non ho un background di marketing o similare. Ricordo proprio che su Google c’erano altri quattro psicologi online, fine. Non c’era niente. Quei quattro, tra cui un paio li ho anche conosciuti perché “conosciamoci, non lo fa nessuno, siamo veramente in cinque”. Quindi stiamo parlando di un periodo dove il digitale era proprio il nulla in questo campo. Nessuno faceva digitale in questo campo. Quindi ho cominciato a lavorare io come psicologa e quello che ho visto è che funzionava benissimo. Perché la mia preoccupazione da persona che non l’aveva mai fatto neanche come paziente, era che poteva esserci molta distanza con uno schermo di mezzo, non vedere il linguaggio del corpo, il non creare un’alleanza terapeutica, che è una delle cose che sta alla base di un incontro di sostegno psicologico o di psicoterapia di successo. Quindi vedendo, invece, che si creava una bellissima relazione con il paziente e che quello che succedeva in studio, nelle mie esperienze in ospedale, succedeva anche online...vedi, quindi funziona, non è una cosa che, come posso dire, è l’ultima spiaggia in caso non hai proprio alternative, è una cosa proprio che funziona. Anche dal lato dei pazienti c’era stickiness, restavano, erano contenti del sostegno che ricevevano, anche perché ci sono dei vantaggi. Il costo non è elevatissimo (ovviamente dipende dal professionista, nel mio caso avevo un costo accessibile) e lo posso fare da casa in pigiama, appena torno dal lavoro, quando sono distrutta, mi metto con un bicchiere di vino in mano e parlo con Danila. Quindi a un certo punto la mia agenda non poteva contenerne più e anche lì ho notato che c’erano opportunità, perché lo storytelling, vi ricordo, era “non iscriverti a psicologia, non lavorerai mai” e io, neofita, avevo un’agenda piena. C’è qualcosa qui che nessuno sta facendo, ma che le persone, se ne capiscono il valore, la vogliono. Questa è stato un po’, mattoncino su mattoncino, quello che poi mi ha portato ad Unobravo.

I primi passi quali sono stati? Hai pensato subito “questa può essere una start up”? Sapevi cos’era anche il termine start up? Perché adesso ne parlano tutti, sembra molto nel linguaggio, però fino a qualche anno fa non si parlava proprio di questo concetto, quindi cos’hai pensato, come hai strutturato la cosa all’inizio?

Allora, all’inizio non sapevo neanche cosa fosse una start up, quindi proprio la parola. Non avevo proprio collegato che Unobravo potesse essere una start up. Per me era un sito internet che avevo creato io grazie a dei tool di KnowCode, che ti permettono di creare siti molto semplici. Ribadisco sempre, sono sempre stata una smanettona, quindi ho fatto da sola così, prendendo cinque siti, vedendo i pattern, ok lo faccio simile, vedo quelli che sono i pattern ripetuti e ne faccio un sito, questo era il livello…per chiarire questo punto. Quindi per me era un sito, ci metto sopra altri psicologi, 3 o 4 li conoscevo già e li stimavo come professionisti; altri, tramite passaparola erano 9 all’inizio. Il primissimo team di Unobravo erano 9 psicologi. Metto le foto, descrizione, sempre su questo sito, non era un’azienda, non era una start up, non era niente. Poi onestamente ho un buco di memoria, ho sempre provato a ricordarmi questo momento, ma io da questo momento del progetto dove io, per dire, ricordo che su LinkedIn avevo scritto “Responsabile di Unobravo”, cioè non sapevo nemmeno cosa fosse un CEO, niente, mancavano le basi. Non ricordo quando ho capito che “ah, questa può essere una start up”. Mi ricordo direttamente il momento in cui facevo application per il programma di accelerazione. A quel punto sapevo cos’era una start up per forza, altrimenti non trovavo questa cosa, però non ricordo assolutamente quando ho capito “ah guarda, questo può rientrare come start up”. Ci tengo a sottolineare queste cose al di là che mi fa piacere ricordarle, ma perché, secondo me, per chiunque possa ascoltare e possa vedere che alla fine tutti partiamo da zero. Era proprio zero, non sapevo cos’era una start up, non sapevo cos’era una CEO. Parlate con i ragazzi che poi ci hanno accettato al programma di accelerazione, raccontano sempre questo evento di loro che ricevono l’application da parte mia e che come pitch trovano in allegato il nostro logo, perché non sapevo cosa fosse un pitch. Ero sicura che non era un logo, ma ho detto “va beh, mando”. Lo raccontano sempre, e durante il primo incontro che facemmo per i vari colloqui che poi ci hanno fatto per selezionare le 4 start up che selezionarono, mi dissero “ma tu che cosa sei? Che cosa fai?”, “io faccio questo, faccio quello, faccio quest’altro”, “Ah quindi sei la CEO?” “Sono la CEO? Non lo sapevo”. Quindi, ci tengo sottolineare, tutti partiamo da zero, forse nel mio caso ancora di più, perché moltissimi imprenditori vengono fuori da percorsi di Economia e Management, di Ingegneria gestionale, quindi già un mondo che più ti avvicina la creazione di un’impresa. Forse nel mio caso fa anche ridere che era proprio sotto zero, non era zero. Però, ripeto, ci tengo sempre a sottolinearlo, perché poi quando si vede un’azienda bella e fatta, si può pensare che è nata così, invece io sono convinta che facendo i passi giusti, con l’approccio giusto, con il mindset giusto, chiunque possa provare a fare una cosa del genere. Tutti partiamo da zero.

Ed è per questo che raccontiamo tutti questi pezzettini che portano ad arrivare ad una start up sul podcast, perché vogliamo…hai centrato esattamente il messaggio, tutti partono da un punto diverso, ci arrivano in vie diverse. Appunto, nel tuo caso la cosa che è molto interessante di Unobravo è che si è proprio creato logicamente, cioè tu non volevi arrivare a fondare una start up. Hai avuto un problema tuo, hai visto un need, hai detto “dai, proviamo a farlo, c’è domanda, mettiamoci altre persone su questo sito” e poi, ovviamente, questo passo di cui vorremmo parlare adesso, del salto la start up è molto importante, perché se no rimane un sito, quindi poi bisogna avere l’intuizione di dire “c’è qualcosa in più che posso fare”.  Quindi su questo punto l’incubatore nel quale siete entrati è SocialFare. Ci racconti un po’ cos’è successo dentro SocialFare, com’è cambiato il tuo mindset da responsabile che ha creato il sito alla CEO di una start up? Com’è cambiato tutto in quei 4 mesi, credo che fossero, al termine dei quali avete anche ricevuto del funding, quindi sicuramente vi ha aiutato a raccogliere un po’ di capitali.

Il percorso è stato assolutamente fondamentale perché ero sicuramente molto forte, insieme anche a Corinna e Valeria, che sono proprio le neofite, quelle dal giorno uno in Unobravo, 3 psicologhe molto forti sulla clinica. Quindi noi ci siamo concentrare subito sul dare un ottimo servizio clinico alle persone. Il programma di accelerazione mi ha aiutato indubbiamente a mettere a posto tutte le altre competenze che mi mancavano. Da smanettona qualcosa la stavo imparando grazie a Google, i corsi di Google per la parte di advertising etc., ma proprio un pensiero strategico a 360 gradi…io ricordo bene che c’era la giornata in cui si parlava solo di brand, branding marketing, come farlo al meglio. Non sono corsi…come posso dire, non è un master, è una giornata, non è che ti risolve tutto il problema, però intanto ti apre quelle porte mentali che al momento ti mancano. Nel mio caso, forse, particolarmente, perché venivo da un background completamente diverso. In altri casi magari è utile un po’ meno, ma per me è stato life-changing, perché quello era il primo passo, poi tornavo a casa e studiavo, imparavo, guardavo video, guardavo film, sicuramente con una fame di imparare che mi contraddistingue. I miei dipendenti lo sanno, sono molto ossessiva quando qualcosa mi appassiona. Io sono sempre stata appassionata di questo progetto. Quindi da una parte il branding, dall’altra parte in finance, da un’altra parte l’hiring delle prime persone del team, tutte cose che non avevo mai fatto e che il programma di accelerazione mi ha insegnato a fare. Poi è entrato a bordo Gregorio, quindi a quel punto eravamo in 4, qualche skill più tecnologica-matematica, di analisi, quindi sì, avevamo la seconda skill, quella clinica e quella analitica, ma ci mancava ancora il marketing, che stavo cercando di recuperare io e imparare io, e infatti oggi al team marketing gli rompo particolarmente le scatole, perché ci tengo tanto ed è una cosa che ho fatto io per i primi anni. E tutta la parte tecnologica all’inizio era un dramma perché sì, io avevo creato il sitarello carino, semplice e anche banale, ma ci voleva tanto supporto tecnologico per quello che poi a noi serviva. Quindi è servito a questo. Ci tengo a dire un’ultima cosa sul programma di accelerazione: ci ha fatto incontrare tale Angelo, Angelo Casagrande, che era un advisor esterno a SocialFare, che però SocialFare spesso contattava quando riteneva che ci fosse un fit con una start up. Angelo è stato quello che mi ha insegnato il growth mindset, quindi come concentrarsi sulle priorità giuste o comunque giuste secondo quello che è il suo punto di vista che poi è diventato anche il mio, e come eliminare tutti i colli di bottiglia alla crescita, quindi come fare a ridurre i tempi e concentrarsi solo sulle cose importanti. Perché quando si parte con un nuovo progetto, le risorse non sono infinite, e per risorse parlo sia di soldi (in quel momento erano ancora a zero), ma parlo anche di persone. Se siete in 4, dovete capire dove far convogliare le energie, perché se invece le energie vengono usate male, quindi ci dedichiamo 6 ore a fare una cosa che non voglio dire essere inutile, le cose inutili sono poche, ma magari che non hanno un grosso impatto. Invece, come fare a convogliare le energie su quello che era l’ottimizzazione più alta possibile per 4 persone senza soldi? Detta proprio in modo super sintetico. Angelo è stato per me life-changing.

Ricollegandoci un po’ all’idea che, appunto, eri psicologa, adesso una psicologa che è entrata in un programma di accelerazione, ma comunque tutte queste cose di business, come ci hai detto, eri a meno zero e stavi iniziando ad impararle. Hai mai avuto dubbi che non eri la persona giusta per essere la CEO di Unobravo? Che avresti dovuto concentrarti solo sulla clinica o magari, anche se non hai pensato proprio quello, ma come hai superato quelle paure iniziali di dire “oh mio Dio, ma sto cercando di fare una cosa di cui non so niente”?

All’inizio no, ma perché non avevo idea…nel senso che io non ho mai fatto questa cosa perché dovevo avere successo. Se tu hai già il successo in testa, hai l’ansia da prestazione, perché sai che stai facendo una prestazione per il successo. Se invece stai facendo qualcosa che ti diverte, che senti tuo, perché è tuo, ma che il peggio che può succedere è che un paziente non è contento, ma eravamo bravi a gestire i pazienti, quindi su quello stavo serena, la approcci in modo diverso. Questo pensiero a me è cominciato ad arrivare nel momento in cui ero diventata più imprenditrice mentalmente e quindi volevo il meglio per la mia azienda. Un po’ come quando si ha un bambino, io voglio il meglio per mio figlio, sarò io una mamma brava in grado di dare il meglio per mio figlio. Stessa cosa con l’azienda. Allora da quel momento, più volte ho pensato “fammi guardare intorno, se ci può essere una persona più brava di me”, ma non perché facevo grossi errori o altro, ma perché mi rendevo conto che avevo in mano una cosa che stava funzionando benissimo, che aveva un potenziale di crescita e lo ha ancora, enorme. Perché? Perché eravamo stati noi bravi a fare le scelte giuste, perché il mercato era nel momento giusto, perché poi c’è stato il Covid che ha molto cambiato la mentalità delle persone nei confronti dei servizi digitali. Noi non lo sapevamo, siamo partiti nel 2019, però di fatto poi è accaduto. Nel momento in cui ti rendi conto che hai in mano un potenziale gioiellino, ma che forse tu non lo sai e sta per caderti dalle mani perché non lo sai reggere bene, è lì che ti rendi conto “cavolo, devo stare attenta a farlo andare in alto sto gioiellino, perché ho un gioiellino”. Prima di allora io in mano avevo un progetto figo, non avevo un gioiellino, o comunque non ne ero consapevole. Nel momento in cui, invece, ho cominciato a realizzarlo (e questo forse era un anno e mezzo dopo l’inizio, che mi rendevo proprio conto di cosa avevo per le mani) allora lì sì. Tuttora ogni tanto ci penso, ma nella mia testa lo do quasi per scontato per il futuro. Arriverà un momento dove ci vorrà un manager, un amministratore che ha già amministrato un’azienda così grande, perché amministrare un’azienda di 50 persone non è come amministrarne una da 150 e non è assolutamente come amministrarne una da 500. Stessa cosa se vogliamo parlare non di persone ma di revenue. Amministrare una società che sta guadagnando 1 milione, non è la stessa cosa di amministrare una società che sta guadagnando 50, tanto meno che una che ne guadagna 300. Io sono la persona giusta in questa fase? Io credo sì, però mi sono mentalizzata che se il tuo principale pensiero non è il tuo ego, ma è la tua azienda, e secondo me un imprenditore deve pensare alla sua azienda, perché altrimenti non è un imprenditore furbo, lo devi avere questo pensiero. Arriverà un momento in cui Unobravo avrà bisogno di un altro tipo di persona e questo non significa che io vado in pensione, posso prendere un ruolo diverso, quindi un ruolo in cui sono comunque una persona che è parte delle decisioni etc., ma non sono quella che è il capitano di tutto. Questo, se c’è qualche mio dipendente in ascolto, che non si spaventi. Però, ripeto, io credo che non dire, non pensare una cosa del genere da parte di qualsiasi amministratore sia molto ingenuo, mentre io voglio che questa azienda arriverà a un punto in cui non sarò più la persona giusta e sarà giusto così.

Sì, questa parte dell’ego è molto importante. Appunto, troppo spesso uno pensa solo a come appaio io, se la gente pensa che sono brava, che ho fatto la cosa giusta…

“Ho fallito, ho fatto successo…”

Esatto. Però se riesci a cambiare quella mentalità e concentrarti sul bene dell’azienda, che alla fine hai creato e il tuo bene è anche quello. Credo che quello sia un mindset shift molto importante. Abbiamo parlato dei consigli, del ruolo che ha giocato Angelo e una cosa che hai detto è che vi ha aiutato a investire sulle cose giuste all’inizio. So che è una domanda molto difficile, ma quali sono state le cose giuste o quali sono state, prima di arrivare alle cose giuste, le cose che avete fatto all’inizio? Una volta partiti con la parte start up di Unobravo, cos’avete fatto? Quali sono stati i primi passi?

In realtà io ci ho pensato molto a questa cosa, quindi una regoletta te la so dare, che non è di Unobravo, ma è generale. Bisogna misurare tutto e per tutto intendo: le azioni che faccio, che impatto hanno sul business? Quindi scrivo un articolo di blog, quanti pazienti arrivano a Unobravo? Facciamo finta che non parliamo di Unobravo, scrivo un articolo di blog, quanti clienti mi porta quell’articolo di blog? Oggi ci sono strumenti gratis per vedere questo tipo di cose, non è una roba che ha bisogno di un’astronave sotto per poter andare avanti. Faccio una campagna marketing, cosa mi porta quella campagna marketing? Ora confrontiamo le due cose, quanto ci metto a scrivere un articolo di blog? Quanto ci metto a fare una campagna marketing? Le due quanto costano e quanti clienti mi portano? Io che sono da sola, completamente da sola, e ho due ore da investire, cosa farò? Un articolo di blog o una campagna marketing? Questa ovviamente è molto superficiale come spiegazione, perché sono cose molto diverse che hanno un senso anche diverso. Una è più a lungo termine, l’altro è più a breve termine, però è per far capire che non bisogna dare per scontato che tutto ciò che le aziende fanno, io le devo fare dal giorno 1. Io ricordo Angelo, che è una persona anche molto delicata, devo dire, poco, nel senso che parla in modo diretto com’è giusto che sia, perché girare intorno ai concetti non serve a nulla, ti servono persone che ti danno feedback reali. Io avevo scritto una cosa come 100 articoli di blog, ci avevo perso una marea di tempo, e lui direttamente mi interrogò, mi fece challenge sulla parte di quanto tempo ci metti, quanti clienti ti porta, e io avevo risposto come molto spesso le persone ingenue e alle prime armi rispondono “ma tutti hanno un blog”, “e cosa me ne frega a me che tutti hanno un blog?”. Nel senso, perché devi investire il tuo tempo in qualcosa che è vero, hanno tutti, tutti. Tutte le aziende troverai che hanno un blog, tutte le aziende troverai che fanno advertising su Meta, su Google, tutte le aziende troverai che magari hanno un canale Youtube, piuttosto che altro etc. Non è detto che sia la cosa giusta per te, oppure non è detto che sia la cosa più giusta da fare ora, magari la fai tra 12 mesi quando ti renderai conto che invece ha senso investire su quel canale. Le cose importanti sono la sostanza e come investi il tuo tempo, perché altrimenti invece di un anno ce ne metti 3, e lo sappiamo…nel senso, si sa cosa succede quando un’azienda è lenta a crescere: gli investitori ti vedono come meno interessante, intorno a te se devi fare application per un bando, risulterai un’azienda poco affidabile se ci hai messo 3 anni a raggiungere 100.000€ di revenue. Quindi una serie di reazione a catena che poi possono diventare un circolo vizioso, quindi un mindset che ti porta a concentrarti su quello che è impattante per la parte di business model, quindi devo iniziare a fare numeri sempre più grandi, mantenendo la qualità che voglio avere del servizio (questo ovviamente è un caso nostro peculiare) e quindi come indirizzare tutto il tuo effort su questo mindset qua. Secondo me, ripeto, è fondamentale, nella fase early stage, perché altrimenti è facilissimo perdersi in una marea di attività, di cose, che alla fine portano poco e non si hanno persone infinite, soldi infiniti per fare quello che si vuole.

Focalizzandoci proprio su Unobravo, quindi su quello che avete fatto voi, secondo te ci sono, e magari qua è molto high level, delle decisioni che hai preso all’inizio, o che avete preso all’inizio, che si sono rivelate molto importanti nell’indirizzare Unobravo sulla strada giusta? Non so se riesci a pensare a uno o due cose che avete fatto all’inizio, che vi ha cambiato un po’.

Indubbiamente. Sicuramente tantissime. È anche un po’ difficile fare retrospettiva sulle cose positive, perché se sono andate bene non hai un A/B test che ti dice questo funziona, questo no, però io sono convinta che la nostra ossessione maniacale verso il singolo paziente è stato quello che poi ci ha reso vincenti, perché da lì ne deriva tutto. La scelta degli psicologi, la scelta della tecnologia da utilizzare, le campagne di marketing…quindi abbiamo creato un metodo clinico a un certo punto. Ci stavamo rendendo conto che stavamo definendo quello che oggi noi chiamiamo il metodo Unobravo, che ci rende molto diversi da una tecnologia. Noi non siamo solo una tecnologia, noi siamo una start up tecnologica molto managerializzata, perché supportiamo i nostri psicologi, sono membri di una community, ricevono pazienti, supporto per i loro pazienti se ne hanno bisogno, possono migliorare le loro skills. Per noi la cosa fondamentale era la terapia, quindi che cos’è successo all’inizio? Che anche in assenza di soldi per investire sul marketing, ci arrivavano sempre più pazienti, perché c’era un passaparola. Un po’ com’è successo anche ad altre aziende, se io sono contenta, ne parlo, dico “oddio, c’è una figata che costa di meno, lo fai da casa tua, la mia psicologa è un amore, bravissima, mi sta svoltando etc.”, così si crea quell’effetto a macchia d’olio senza il quale noi non saremmo riusciti per un po’ di tempo a non prendere funding round. Noi abbiamo preso molti pochi soldi per la dimensione che abbiamo rispetto alla media delle start up e scale up. Noi abbiamo preso 150.000€ da SocialFare e CDP dopo che è finito il programma di accelerazione al quale ti riferivi tu, Camilla, ma ti assicuro che per un’azienda spariscono subito, non sono quelli che ti portano a fatturare milioni e milioni di euro. Nel momento in cui si parla di un’azienda che sta crescendo, di solito le start up vengono molto aiutate dagli investitori, ed è giusto così. Nel nostro caso siamo stati fortunati perché avevamo trovato la formula vincente, mi permetto di dire, che ci ha consentito di crescere con le nostre gambe.

Ci sono stati dei momenti particolarmente difficili nella crescita di Unobravo? Ci puoi fare un esempio di qualcosa che avete superato? I momenti difficili per ogni start up ci sono, quindi magari uno che ti ha particolarmente segnata.

Momenti difficili tanti, qualcuno che mi ha segnato particolarmente è stato forse un anno e mezzo fa, dove ero veramente esausta, perché ad oggi, successivamente, mi rendo conto che abbiamo aspettato troppo ad assumere alcune figure che invece erano fondamentali in azienda, e quindi non prendendole, anche un po’ per incompetenza, nel senso che io facevo colloqui, ma non riuscivo a rendermi conto se mi trovavo davanti alla persona adatta o no, perché erano cose molto specialistiche e all’epoca parliamo ancora di un periodo dove io ero ancora in Inghilterra, non avevo alcuna amicizia a livello di mondo start up italiano o estero, eravamo ancora tutti chiusi in casa, quindi era molto…io oggi telefono un amico founder che sta più avanti di me, gli rompo le scatole, mi faccio aiutare “ti prego aiutami, dimmi cosa devo guardare in questa persona, ti prego fammi un colloquio con me”. Figurati, se qualche mio amico mi ascolta, si riconosce, lo sa. Ma all’epoca ero ancora molto isolata da tutto questo, non avevo avuto occasione di fare amicizia e mi sentivo molto sola, perché comunque anche le persone intorno a me erano persone super volenterose, ma non con quella seniority da riuscire a rendersi conto di avere davanti un candidato molto più senior di te, molto specializzato su un qualcosa che sa fare quello che deve fare. Io sono certa che a posteriori ringrazierò di averlo fatto, perché il fatto che abbiamo continuato a crescere molto ci ha consentito di poter ambire oggi a candidati che vogliono tantissimo lavorare con noi e che vengono pure da aziende strafighe, quindi, avendolo fatto molto prima, avremmo preso persone un po’ più junior rispetto a quelle che stiamo assumendo oggi. Però in quel periodo ricordo di aver raggiunto un livello di stress, di burnout veramente molto pesante ed era uno dei periodi in cui mi sono più domandata “ma sono la persona giusta per fare questa cosa? Probabilmente servirebbe qualcuno con più esperienza di me”. Poi è stato un realizzare che quello che ti manca lo puoi ottenere in vari modi. Adesso, ripeto, è molto più facile per me, avendo un network anche di amicizia, oltre che adesso anche di investitori che ti possono dare una mano. Se qualcosa mi manca, spudoratamente, sempre per la famosa questione dell’ego che deve venire dopo la tua azienda, chiedo, mi faccio aiutare, chiedo una mano, chiedo aiuto e cerco di darlo in cambio quando ne ho l’occasione.

Chiedere aiuto è fondamentale perché è un percorso molto solitario e i tuoi amici, anche se sono pazzeschi, la tua famiglia ti supporta, non sanno realmente lo stress che tu stai passando, perché non hanno la loro azienda. Hanno altri stress, per carità, però è proprio molto diverso. Tra l’altro stavo pensando che su Unobravo dovreste fare la categoria per founder, perché ho visto che avete tante categorie, ma è talmente intensa come journey emotiva di montagne russe che bisognerebbe fare la categoria per gli imprenditori. Quello della psicologia online è diventato un settore molto hot. Voi siete partiti all’inizio, hai provato a risolvere questo problema da subito, quindi sei una early starter; tante altre persone si sono rese conto che c’è un business da fare e quindi la competizione, sia in Italia che all’estero, è diventata molto intensa, molto forte e si sono affermati anche altri grossi player. Come vivi tu la competizione? È una cosa che ti preoccupa?

Tendenzialmente, da persona competitiva, mi gasa, nel senso che a volte mi trovo ad accelerare quello che sto facendo, lo voglio fare ancora meglio, ancora più figo, perché dico “dobbiamo vincere”, perché di fatto siamo i first movers (è quello il termine tecnico), il che porta molte difficoltà, perché sei il pioniere. Il pioniere deve tracciare la strada. E poi tante cose che tu ci hai messo 6 mesi a fare, arriva il secondo e te la copia in un secondo. Quindi quei 6 mesi tuoi sono un secondo di qualcun altro e questo a me, ma anche al mio team, vedo con piacere, motiva tantissimo ad essere ancora più bravi, ancora più veloci, ancora più fantasiosi nelle cose che ricerchiamo, che troviamo. Quindi, insomma, è molto challenging e devo dire, se la mia preoccupazione a 19 anni era annoiarmi, se non mi annoiavo con i pazienti, figuriamoci in questa situazione dove 3 anni fa, ricordo, zero servizi. Oggi in Italia ce ne sono 18 e non mi aspetto che diminuiscano. Mi aspetto non solo che aumentino, ma che alcuni di questi riescano a crescere e quindi assolutamente motivante ed è una spinta a ragionare sempre oltre e sempre in modo più innovativo e out of the box.

Sì, perché non potete essere voi quelli che guardano gli altri, dovete pensare a quello che non è ancora stato fatto, quindi chiaramente è un altro…

No, al massimo si prendono spunti da servizi non di psicologia, molto grandi e che hanno funzionato e si prendono degli spunti che possono applicarsi anche nella nostra community di psicologi, nella nostra web app, nella nostra app per smartphone, oppure si guarda ai competitor, ma ai giants, quelli americani che esistono dal 2003. Quindi sì, assolutamente, la competizione, se usciamo dal continente, è molto affascinante, anche perché si vedono anche degli errori che sono stati fatti da altri per evitare di farli noi. Quando arrivi a una certa grandezza ancora più avanti della nostra ce n’è ancora da crescere. È bello poter essere in un paese in cui abbiamo ancora tempo di studiare gli errori degli altri e non caderci dentro, quindi sì.

Ne abbiamo parlato un po’ prima, fare l’imprenditrice è un su e giù emotivo costante. Tu come vivi queste montagne russe e come le gestisci?

Devo dire che mi sono abituata e questo non significa che è facile, significa che sei all’inizio. Come prima vi ho raccontato, c’è stato un periodo molto duro, per fortuna non si è più ripresentato, ma anche perché mi rendo conto che sono cambiata dentro. Un po’ come la psicologia, nel senso che se cambi il modo di guardare le cose, cambi anche il modo in cui vivi le cose e il modo in cui ti comporti e il modo in cui senti. Quindi sicuramente io credo che i momenti peggiori siano non per forza l’inizio, l’inizio dello stress, cioè i primi anni dove sei molto sotto pressione etc. Quindi un po’ ci si abitua, ma io cerco molto di circondarmi di esempi positivi, sia che io conosco, sia che seguo sui social e per positivi non intendo persone che fanno sempre tutto bene. La verità è che gli imprenditori più famosi al mondo hanno fallito più volte di quante volte invece hanno avuto successo e questo aiuta, perché se riesci a craccare quella mentalità del successo-fallimento, diventi libera mentalmente, non sei più schiava della percezione altrui. Se un domani dovessimo fallire, mi spiacerà da morire perché avevo in mano il famoso gioiellino che alla fine ho fatto cadere, e ripenserò soprattutto a tutte le persone intorno a me che saranno impattate da questa cosa, quindi non prendetela come una superficialità da parte mia, assolutamente. Però, se mi guarderò allo specchio, dirò “minchia quante cose ho imparato, so fare un sacco di cose, spero di riuscirci di nuovo”. Non succederà, speriamo.

Non te lo auguriamo.

Ma più che altro perché a un certo punto, come il discorso ti senti una mamma di un’azienda, ti senti anche un po’ una mamma di 130 dipendenti e collaboratori, quindi non è che cadi tu, non sei un libero professionista, sei un imprenditore che ha fondato un’impresa. Quindi io parlo sempre apertamente di discorsi quali il fallimento ecc., non perché me lo sento dietro l’angolo, ma perché voglio anche un po’ sdoganarlo, nel senso che mi fa piacere non stare sempre a guardare alle stelle, che assolutamente noi puntiamo là, figuriamoci se puntiamo il baratro, però esiste anche quello ed è bello sentirsi mentalmente liberi dall’idea che non devo apparire una fallita. Non voglio far fallire l’azienda perché non voglio far crollare dipendenti, persone che oggi hanno uno stipendio, pazienti che oggi sono una piattaforma e sono contenti, tutta una struttura che è bellissimo che sia lì, ma non perché io mi devo guardare allo specchio e devo dire “come sono figa e di successo”. Questa è veramente una libertà che auguro a tutti gli imprenditori.

Bellissimo, e anche con questo podcast vogliamo cercare di sdoganare questa cosa che fallire è una cosa sbagliata, anzi, le persone di più grande successo hanno fallito ripetutamente e si sono rialzate, ci hanno riprovato. Invece ti volevo chiedere una cosa, ovviamente sei entrata nella psicologia, era la tua passione, hai esercitato ed è stato qualcosa un lavoro che ti è piaciuto moltissimo, però fare la propria azienda più la psicologa…non vedi più i pazienti ed è tutt’altro. Spesso questa cosa succede a molte persone che magari vogliono rendere la loro passione il loro lavoro, si ritrovano a fare il 99% della non passione, cioè gestire l’azienda e l’1% di quello che veramente erano appassionati. A te manca esercitare la tua professione?

Più che altro mi mancano i miei pazienti, perché il mio super potere da psicologa, ma anche come persona, è sempre stato quello di creare relazioni, quindi questo funzionava molto bene anche con i miei pazienti. Al momento esercitare non mi manca, ma perché quando man mano ho terminato i percorsi che stavo portando avanti con i miei pazienti, ma nel frattempo gestivo Unobravo, era proprio una cattiveria al mio cervello, perché di fatto passavo da un business plan al fare la psicologa, a una campagna marketing. Sono due lavori troppo diversi, troppo diversi, e mi ricordo che arrivavo la sera stremata. Non che adesso sia un fiorellino di campo la sera, però sono coerente nella tipologia di effort mentale che metto.

Sei sicuramente un’imprenditrice che in Italia ha tanta risonanza e sei stata anche premiata come imprenditore dell’anno del 2022 da parte di Ernst & Young che comunque è un premio molto bello. Cosa pensi che siano i tuoi punti di forza? Cosa fa di te una brava imprenditrice?

Credo che, sicuramente, io imparo velocemente e questo aiuta, perché altrimenti non sarei qua. E poi mi diverte fare un sacco di cose, nel senso che…anche molto diverse tra loro, cioè io volentierissimo passo dalle nuove creatività per le immagini di Unobravo al piano finanziario nudo e crudo, numerico, sul foglio Excel, che ti fanno male gli occhi. Sicuramente questo aiuta, perché ti fa avere una visione a 360 gradi che in un’azienda non dico che è per forza necessaria, perché ci sono aziende che magari vengono fondate da più persone con competenze diverse e non c’è questa esigenza che invece nel mio caso è sempre stata fondamentale, però credo che comunque questo aiuti, perché mi aiuta ad avere una visione di insieme che probabilmente con lo stress o comunque con tutte le cose che ho da fare, se dovessi farle in modo forzato, non sarei così efficace, quindi il fatto che a me piacciono un sacco di cose e mi diverte imparare un sacco di cose e che sia anche veloce a imparare, sicuramente penso che sia…oltre all’empatia, mi permetto di dirlo, ma lo lascerei volentieri dire a qualcuno che non c’è qui.

Esatto.

Voi non mi conoscete abbastanza per dirlo, quindi è brutto dirselo da soli.

Stavo per dire, forse il tuo super potere da psicologa nel creare relazioni si è trasmutato bene, si è ben tradotto nel super potere da imprenditrice di creare network, che è forse una delle cose più importanti.

Anche il rapporto con i dipendenti, nonostante io purtroppo ci lavori sempre di meno, però anche quello funziona bene in Unobravo, siamo una bella squadra.

Siamo arrivati alla fine della nostra chiacchierata che concludiamo sempre con la stessa domanda, che sarà un cambio di marcia, ma volevamo chiedere a te in che modo pensi che la tua italianità ti abbia aiutato in questo percorso?

Bella domanda, io ho una strong opinion a riguardo. A Napoli, quindi non tanto l’italianità, ma la napoletanità…noi parliamo molto di arte dell’arrangiarsi, non so se l’avete mai sentita. Quando non hai molte risorse, quando non hai tantissimo da cui attingere, ti arrangi. Io sono convinta che veramente è un’arte e se io vi mostrassi certi modi che noi abbiamo trovato all’inizio per fare cose per le quali non avevamo la tecnologia, non avevamo soldi, non avevamo il personale, vi fareste delle grossissime risate. Io penso che un giorno scriverò un libro che si chiamerà “L’arte dell’arrangiarsi”, non Unobravo, perché sicuramente è una cosa che quando inizi, aiuta. La vedo una cosa molto italiana perché, per esempio, nell’unica esperienza lunga che ho avuto all’estero (ho vissuto alla fine sei anni in Inghilterra), non ho visto tantissimo, quindi sono convinta che sia una cosa molto italiana l’arte dell’arrangiarsi.

Devo dire che mi sembra un libro pazzesco e la perfetta traduzione in italiano o in napoletano di…sai, lì in start up, tutti molto inglesi, che alla fine è la stessa cosa…ti devi arrangiare con poco, crescere e riuscirci.

Bravissima, ci sta, ci sta.

Aspettiamo il libro e intanto ti ringraziamo tantissimo di questa chiacchierata che è stata non solo molto interessante, ma anche divertente e credo che i nostri ascoltatori avranno molto sul quale pensare dopo questa chiacchierata sia a livello di come crescere una start up, ma anche di come pensare a se stessi come imprenditori, quindi ti ringraziamo moltissimo.

Grazie a voi, grazie a voi dell’invito.

Voglio ringraziarti anche io Danila, perché ci abbiamo messo un po’ ad organizzare questa intervista, so che sei impegnatissima, te lo chiedono in tantissimi, quindi ti ringrazio di aver trovato il tempo per parlare con noi e, come diceva Camilla, penso sia un’intervista pazzesca per i nostri ascoltatori.

Grazie a voi per aver insistito!

 

 

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