Dalla Silicon Valley a Milano per rivoluzionare il foodtech con Ivan Aimo, CEO di Deliveristo

 

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Questa settimana abbiamo intervistato Ivan Aimo, CEO e Co-founder di Deliveristo, marketplace foodtech che connette ristoratori e fornitori.
L’idea di Ivan che porta a Deliveristo, nasce nel 2019 mentre lavorava in un fondo di VC con un focus sul foodtech e si accorge che mentre tutti si concentrano sul delivery B2C i ristoratori non avevano un modo semplice per ordinare prodotti dai loro fornitori. Il mercato era completamente frammentato e basato ancora su carta e penna.
Basta una survey di mercato per capire che c’era un enorme bisogno di uno strumento digitale per semplificare la vita dei ristoratori.

Partito da Milano, Ivan è riuscito ad espandere il business in altre città italiane come Roma e Torino, raggiungendo i 60 dipendenti e triplicando il fatturato anno su anno. 

Oggi Deliveristo offre la più ampia selezione di food online d’Italia, con 70 mila prodotti da oltre 350 fornitori.  Con oltre 12 milioni di euro raccolti da investitori come United Venture, Vertis e Italian Angels For Growth, Deliveristo si prepara a sbarcare in altre città europee.

Nato a Bra in Piemonte, la nostra Food Valley, Ivan ci racconta il suo percorso guidato dall’ambizione. Primo della sua famiglia a finire le superiori arriverà a fare un master sulle nanotecnologie a Berkeley, alle porte della Silicon Valley, dove scatta una passione bruciante per il mondo startup. E da lì parte un nuovo percorso per arrivare a fondare Deliveristo. Dalle sue parole emerge la chiara responsabilità di un founder, che deve guidare la startup con la sua vision, senza potersi permettere punti di debolezza.

 

Ivan, cosa dobbiamo sapere del contesto nel quale sei cresciuto? C’è una domanda che ci piace fare che è: ci sono delle cose in particolare della tua infanzia, della tua adolescenza, della tua famiglia, del paese in cui sei cresciuto o della cittadina in cui sei cresciuto, che hanno, secondo te, colorato il modo in cui pensi alle cose o il modo in cui vivi le cose ancora adesso?

Io arrivo da un piccolo paesino nella provincia di Cuneo, che si chiama Bra. Non so se tutti la conoscono, però è una piccola città che è un po’ la patria del cibo, cresci molto con la cultura del cibo, quindi è dove è nato Slow Food, dove è nato Carlin Petrini. A pochi metri c’è la Ferrero, a pochi metri dove è anche nato Ferinetti, Eataly, Alba, che è molto connesso, che è un po’ la porta delle Langhe, quindi del vino, del buon cibo. E quindi è sicuramente un qualcosa che mi porto dentro dai primi anni della mia vita, che è sicuramente una cultura molto forte sul mangiar bene, il mangiar sano. È un po’ quella che chiamo la Food Valley. Sicuramente questo è qualcosa che poi crescendo ti rimane, è un amore che poi coltivi e porti avanti.

Invece la tua famiglia? Cosa facevano i tuoi genitori? Che tipo di ragazzo eri? Hai un percorso di studi molto eccellente, quindi immagino che eri bravo a scuola.

Sì, allora, i miei genitori in realtà, ti dico, in tutta la mia famiglia sono forse stato il primo…ho addirittura fatto le superiori, perché i miei genitori si sono fermati al tempo alla terza media, quindi già per la mia famiglia aver fatto le scuole superiori era qualcosa di nuovo. Prendere un diploma nella piccola città dov’ero, era già qualcosa di cui essere fieri, quindi questo è stato sicuramente qualcosa che poi mi ha spinto ad andare oltre, aver fame di crescita, di sapere, di evolvere.

È interessante, perché poi sei andato all’università, hai studiato fisica. Poi vedremo, hai percorso di studi veramente brillante, quindi ci puoi raccontare un po’ ancora di più questa domanda, perché hai studiato fisica con un modello di genitori che magari non erano andati alle superiori? Perché scegliere anche la materia più complessa? Magari pensavi che fosse molto utile per il lavoro? Forse non pensavi neanche a quello, pensavi già alla tecnologia. A cosa pensavi a quell’età, quando hai scelto questo percorso?

Nella fase dell’adolescenza avevo una grande esplosione di domande dentro di me. Con gli anni, quindi dai 15, 16, 17 anni, ero tempestato di domande, domande esistenziali, quindi classiche domande filosofiche con cui si cresce. Poi io in realtà avevo fatto ragioneria addirittura, quindi un percorso più tecnico dove addirittura filosofia non c’era. Neanche la scienza c’era. Mi dava tremendamente fastidio poi, con l’evolvere del tempo, che gli altri attorno a me non si ponessero queste domande e quindi ho iniziato a leggere tonnellate di libri filosofici, scientifici. E quindi mi sono fatto un percorso un po’ personale per colmare tutta questa grande voglia di sapere, sapere scientifico, sapere filosofico. Leggevo tantissimo, ecco.

Quindi poi è arrivata l’università, Fisica ha colmato questo tuo bisogno di sapere? Cosa vedevi come il tuo futuro? Perché immagino che avendo fatto anche ragioneria, venendo da un piccolo paese, uno pensa anche in modo molto…non so, pensavi in modo pratico al tuo futuro, alla tua carriera, o not at all, pensavi solo a quello che volevi imparare?

Ho fatto Fisica perché volevo delle risposte, quindi volevo sapere quali leggi governano l’universo, se c’era un Dio, se non c’era un Dio, perché c’è la matematica dietro tutto ciò in cui siamo…in maniera così profonda, quindi è nato un grande amore per la matematica, per la conoscenza. In parallelo, mentre facevo…in realtà non Fisica, ma Ingegneria fisica, perché pensavo fosse più ricca e desse più sbocchi, mi sono letto anche tonnellate di libri di filosofia, e portavo avanti le due cose. Quindi, devo dire, in quegli anni, la mia sete di conoscenza si è colmata, perché comunque la fisica ti dà tante risposte, ti apre la testa, apre il mondo. Entri in dei meccanismi, come la fisica quantistica, come la teoria della relatività, il microcosmo, il macrocosmo che davvero ti apre tantissimo la mente e, devo dire, è stato un percorso bellissimo. Ricordo quegli anni davvero con grandi difficoltà, perché comunque erano pezzi che non avevo mai fatto prima, ma anche grande sete che poi veniva placata.

Certo, perché hai dovuto colmare, ovviamente, un po’ di lacune dovute al non avere fatto il percorso scientifico che avranno fatto quasi tutti i tuoi colleghi di università. Ma andando avanti, per continuare gli studi sei partito per la Francia, hai fatto un master in Ingegneria elettronica e Nanotecnologie e poi, penso che questa sia stata una parte molto importante della tua storia, una tesi fatta a Berkeley, all’Università di Berkeley, in California, che come molti sanno è un po’ alle porte della Silicon Valley a Oakland. Ci puoi raccontare un po’ di questo tuo arrivo a Berkeley, che tipo di ambiente era, cos’hai scoperto e se ha cambiato un po’ il modo in cui vedevi il tuo futuro o le cose che ti interessavano?

Dopo i 3 anni di Ingegneria fisica, appunto, ho iniziato questa specialistica in micro e nanotecnologie che era un ramo che stava prendendo molto piede in quegli anni, quindi l’ingegnerizzazione del nano-cosmo, del microcosmo. Quindi ho fatto 6 mesi a Grenoble, in Francia, 6 mesi a Losanna, in Svizzera, e poi ciascuno poteva scegliere dove fare la tesi e appunto sono andato a farla a San Francisco, alla Berkeley, perché c’era un progetto molto interessante che mi piaceva particolarmente. Allora, premetto che sono stati, credo, i 6 mesi più belli della mia vita al di là di tutto, perché comunque la California vissuta in quegli anni è un qualcosa di incredibile, quindi umanamente è davvero un posto fantastico e poi quello che ho visto è che è un paese tremendamente aperto a tutto, tremendamente aperto all’innovazione. C’erano tantissimi capitali nella ricerca, tantissimi capitali nell’istruzione, nella creazione di startup, creazione di innovazione. Quello è sicuramente qualcosa che ti rimane, quindi, banalmente, nel reparto di Fisica a Berkeley esce un premio Nobel un anno sì e un anno no. C’erano addirittura i posteggi per parcheggiare le macchine soltanto se eri un premio Nobel. Quindi quello che mi ha appassionato tantissimo è proprio conoscere tante persone, prendere spunti diversi, sentire idee, sentire innovazione, sentire startup. È un qualcosa che se vivi a Berkeley e poi vai a San Francisco, magari fai un giro anche a Monterey, ti rimane. E proprio questa passione nel creare, nell’innovare, nel provare a trovare la soluzione dei problemi è un qualcosa che sicuramente ti rimane dentro e ti appassiona e l’ho vissuto sicuramente a pieno in quegli anni.

Ed è un po’ lì, immagino, che tu hai scoperto il mondo delle startup, delle startup Venture Backed, del Venture Capital che era in fermento in quegli anni, soprattutto in quella parte del mondo. Ci puoi spiegare un po’? Comunque eri in un percorso di scienza applicata, dove stavi studiando delle tecnologie avanzate e potevi anche continuare in quel percorso, invece, questa tua scoperta del mondo startup ti ha un po’ arrestato sul tuo percorso e hai detto “ok, questa è la cosa che trovo veramente eccitante, che voglio fare”. C’è qualcosa in particolare che ti ha dato quella sensazione? Era la possibilità di crescere velocemente, di guadagnare molto alla fine? C’è qualcosa che ti ha colpito?

Il passaggio un po’ alla parte applicata è che comunque la parte teorica e di ricerca teorica la trovavo troppo alienante. È un qualcosa che se vivi 8, 10, 12 ore di analisi matematica al giorno, e poi alla fine se fai fisica quel mondo lo vivi…dopo 6 mesi, dopo un anno, dopo due, dopo tre, davvero ti ritrovi a vivere in un altro pianeta. Quella cosa iniziavo a soffrirla e quindi seguendo invece l’altra parte, più del contatto, di come la tecnologia può risolvere problemi della vita reale di tutti, ho pensato che fosse un percorso che sarebbe stato più gratificante, che poi è cresciuto e mi ha indotto a fare anche un MBA poi, dove è nata più la passione per il mondo Venture Capital e si è concretizzata sulla parte di startup.

Infatti ti volevamo proprio chiedere, quindi sei andato a Berkeley per fare la tua tesi, e dopo hai cominciato subito a lavorare? Cioè sei andato prima a fare l’MBA o hai cominciato magari a fare prima startup, provandoci, e poi hai capito che magari dovevi completare…ti mancavano magari delle skills e le hai volute completare?

Durante l’MBA ho anche lavorato. Era un MBA particolare, si chiama Collège des Ingénieurs. Fondamentalmente è un MBA dove vieni selezionato e poi retribuito dalle società per cui lavori, quindi magari Boston Consulting Group, piuttosto che McKinsey, piuttosto che società di consulenza, per X settimane al mese, tipicamente un paio, due o tre all’anno, lavori e le restanti le passi a studiare. È un MBA che si teneva tra Parigi, Monaco di Baviera e Torino, quindi hai modo sia, da un lato, di toccare l’innovazione, toccare la digitalizzazione, seguire la parte di consulenza e anche la parte di lezioni. È in quegli anni dove è nata di più la parte di startup, Venture Capital.

È molto interessante questo MBA, sinceramente non l’avevo mai sentito e soprattutto penso che uno dei grandi limiti dell’MBA sia proprio il costo, persone che magari devono non soltanto pagarsi le tuition fee (se non sono in consulenza che paga per loro), ma in più sono fuori dal mercato del lavoro per magari anni, quindi è un extra costo. Quindi è interessante questa cosa che puoi fare. Non è un executive MBA, ma proprio un part time e lavorare, quindi molto interessante, lo linkeremo anche poi nella descrizione dell’episodio. Quindi sei poi anche andato a lavorare in un fondo di VC italiano che si chiama Innogest Capital. Ci racconti un po’ di questa esperienza in VC dopo tutta l’esperienza che hai passato nel mondo della fisica applicata? Com’è stata la transition, di cosa di occupavi, che trend seguivi?

Già il passaggio da scienza a mondo del lavoro…il trauma l’ho vissuto a Parigi perché ho lavorato lì un anno, per una società che si chiama Econocom Digital Transformation e già ero un po’ smussato rispetto a quanto facevo prima e quindi solo formule. Ricordo gli anni del mondo Venture Capital interessantissimi, perché comunque lavorare in un fondo di VC ti permette di vedere almeno 1000 opportunità l’anno, quindi vedi tutto il mondo dove sta evolvendo. Io seguivo più la practice digitale. Seguivamo quei verticali dove pensavamo che l’Italia potesse portare più valore, che erano il Foodtech, il Digital Health e il Fintech. Proprio seguendo anche poi tutta la parte di Foodtech che ho messo un po’ assieme i pezzi, quindi l’opportunità di vedere che il mondo si stava spostando dopo la parte di food delivery nel b2c, poco per volta si stava andando nel b2b. È stato sicuramente molto istruttivo, soprattutto anche il fatto di interfacciarsi con imprenditori forti, capire come si costruisce una startup dall’inizio, quali errori da non fare, cosa un fondo di Venture vuole, come impostare un modello di business e validarlo all’inizio. Quindi sicuramente è stato fare un secondo MBA ed è stata una bellissima palestra.

E con un background come il tuo si potrebbe pensare che sei finito a fare una start up molto tecnologica, con nanotecnologie, invece è il settore proprio del Food, del Foodtech che ha catturato la tua attenzione…che poi, per carità, può essere anche quello altamente tecnologico, immagino. Cosa ti è piaciuto proprio di questo settore, perché hai deciso di andare lì?

Quello che mi è piaciuto sicuramente è il fatto che, insieme al Fintech, era uno dei verticali che stava attirando maggiormente l’attenzione dei fondi di VC, un mondo gigantesco completamente all’età della pietra. In ogni suo pezzo il digitale non era ancora arrivato, quindi in quegli anni, 2016, 2017, erano gli anni in cui stavano partendo i vari Glovo, Deliveroo, JustEat e quindi digitalizzare da ristoratore a consumatore finale; erano gli anni in cui partiva anche il trend del grocery delivery, quindi digitalizzazione della spesa a casa delle persone. Ad esempio noi avevamo fatto Supermercato 24, poi Everli in quegli anni. Quello che mi ha appassionato è stato sicuramente questo trend in forte crescita, questa mancanza di digitale in ogni parte e il fatto che, sicuramente, i primi anni di vita, tornando alla prima domanda, del fatto di essere nato e cresciuto a Bra, e quindi nato e cresciuto con il cibo…mettendo assieme il grande amore per il cibo e quello per la tecnologia, ho fatto 1+1 e ho detto “questo è uno spazio dove sarei felice di costruire un qualche cosa.

Ci puoi riportare alla nascita dell’idea di Deliveristo, cioè com’è nata l’idea? Hai visto, immagino, un gap sul mercato. Come dicevi, tutto doveva essere trasformato, innovato. Come, però, hai identificato questo gap? Quali sono stati i primi ragionamenti che hai fatto per capire se quella fosse effettivamente l’idea giusta? Sei rimasto con l’idea che avevi, cioè Deliveristo è quello che era quando tu avevi la prima idea o è poi cambiato?

In quegli anni, appunto, erano tutti focalizzati al consumatore finale, notavo che però, non nel food, ma in altri spazi, c’era un incremento negli investimenti nella parte b2b, e mi ero posto la domanda del come mai nessuno si fosse ancora occupato di digitalizzare il pezzo prima della filiera, quindi non più quello che connette il ristoratore al consumatore finale, ma dai supplier alla ristorazione. I dati di mercato dicevano che era un mercato tremendamente grande. La spesa dei ristoranti, solo in Italia, vale 25 miliardi, 150 miliardi nel mondo, quindi di tutti gli spazi di mercato nel b2b era il maggiore, o tra i tre o quattro più grandi. Quello che poi mi ha portato a pensare a un b2b marketplace pure software è che comunque era un mercato dove c’erano già tanti operatori, quindi un mercato fatto di tantissimi distributori, piccoli produttori, Cash and Carry, generalisti, da un lato; e dall’altro lato tantissimi ristoratori e anche qua iper frammentato, quindi ho detto “il mondo si sta spostando nel b2b, manca la digitalizzazione, questo è un mercato iper grande e iper frammentato, sia da un lato che dall’altro e quindi è uno spazio perfetto per creare un b2b marketplace, però pure software. Mentre c’erano altre realtà che stavano approcciandolo, creando un nuovo distributore, quindi un luogo fisico dove aggregare i prodotti, fare la consegna, quindi una sorta di Cortilia b2b, a me non è mai piaciuto questo modello perché a mio giudizio il mercato non richiedeva l’ennesimo nuovo distributore, ma il mercato chiedeva di trovare online, in maniera più semplice, la tonnellata e la valanga di distributori che già esistevano. Questa è un po’ l’idea del come mai abbiamo approcciato con questa soluzione, e abbiamo creato un pure software b2b marketplace.

Siete partiti, ci hai raccontato, facendo una survey del mercato, cioè chiedendo ai vostri possibili futuri utilizzatori, distributori e ristoratori, o forse solo ristoratori, non so, ora ce lo racconterai meglio…e trovo che sia una cosa molto importante ed interessante da fare per cominciare. Ci puoi raccontare un po’ i meriti, secondo te, di fare una survey quando uno inizia a testare un’idea e che risultati avete trovato facendo questa survey?

Io credo che sia fondamentale, perché prima di partire bisogna sempre chiedere al potenziale cliente di quello che vuoi servire, se è effettivamente un bisogno. Io avevo questi pezzi del puzzle che mi dicevano che c’era un mercato gigantesco, iper frammentato e mancasse il digitale, però magari i clienti erano comunque contenti di lavorare come lavoravano da cent’anni. Quindi, ovviamente, abbiamo intervistato 150 ristoratori e il feedback che è emerso era abbastanza allineato. Tutti avevano tantissimi fornitori, in media un ristorante aveva 15 fornitori diversi, non vi era un luogo dove poterli comparare, dove poterli trovare, avevano quindi 15 punti di fatturazione diversi e gli ordini venivano fatti tutti i giorni, o comunque un giorno sì e un giorno no e l’unico modo anche eventualmente per risparmiare era quello di…ho sentito un ristoratore che mi ha detto che la domenica si metteva con un Excel, si faceva inviare solo per la frutta e la verdura 5 listini, sempre in Excel, da 5 fornitori e poi li comparava in un Excel, scrivendo “avocado”, “edamame”, guardava i prezzi negoziati di quella settimana (perché sono prezzi che cambiano tutte le settimane) per decidere da quale fornitore acquistare. E allora quello mi ha dato forza ed è stato l’ultimo pezzo dl puzzle che mi ha portato a pensare che, applicando, appunto, b2b marketplace dove il ristoratore potesse trovare tutti i principali fornitori della propria città, comparare i prezzi, decidere da chi acquistare, era effettivamente un need, quindi questa è stata la validazione del pensiero che avevo maturato.

Sì, per qualche motivo non ne abbiamo parlato spesso sul podcast, ma questa cosa di fare una survey del tuo potenziale mercato, dei tuoi potenziali consumatori o clienti, è veramente una fase molto importante, perché come dici, può essere tutto nella tua testa, ma poi anche non solo validare il problema, ma anche affinare anche un po’ il problema dal giorno zero, quindi capire “ah magari il need è un pochino da questa parte”, quindi aggiustare in corsa anche quando sei nella fase di ideazione, che ovviamente è più facile, costa meno di quando sei partito. E poi volevamo parlare anche di founding team, che ovviamente è un tema molto importante nel mondo startup. Tu sei partito con un tuo collega di Innogest, ma avete capito subito che vi sarebbe servito un terzo co-founder, o magari anche un quarto in realtà. Ci puoi raccontare un po’ come avete messo insieme il founding team e perché eri convinto che servisse almeno un’altra persona per partire?

Serviva un’altra persona fondamentalmente per un motivo, perché né io né il mio collega capivamo nulla di ristorazione. Avevamo background finance, background di venture capital, background di startup tech, però dei bisogni del ristoratore, dei bisogni dei produttori, dei distributori, non ne sapevamo nulla, quindi ci serviva qualcuno che arrivasse da quel mondo, che fosse cresciuto e avesse masticato quel mondo da sempre, ed è qui che entra in gioco Gabriele, il nostro terzo co-founder. Lui, figlio di ristoratori, ha sempre vissuto il mondo della ristorazione, ha lavorato nel ristorante, poi lavorava anche al Bulgari, ed era un collega di Luca durante anni dell’università, avevano studiato Legge assieme e poi avevano fatto un percorso al Parlamento Europeo prima di lanciarsi nel mondo del lavoro ed è lì dove si erano conosciuti. Quindi era la persona perfetta per conoscere in maniera viscerale le dinamiche del mondo che dovevamo andare a digitalizzare.

L’avete convinto facilmente a seguirvi in questa avventura o è stato il primo pitch?

Al primo aperitivo è stato folgorato, anzi, mi ricorderò sempre, perché dopo quell’aperitivo, quando io e Luca abbiamo detto “Gabriele, noi abbiamo questa idea, ma non sappiamo se effettivamente è un need del mercato”. Questo è stato prima della survey, perché poi è stato Gabriele a portare avanti la survey. Abbiamo visto nei suoi occhi che si è accesa una lampadina. L’espressione che aveva fatto lui per me poteva anche dirmi “non è neanche necessaria una survey”, perché lui che era in quel mondo da tanti anni, che appena gli abbiamo spiegato quello che secondo noi poteva essere interessante da costruire, gli si sono accesi gli occhi e ha detto “no ragazzi, questa è veramente una necessità e io sono in questo mondo da tanto. Se volete mi occupo io di fare questa survey, l’esito lo conosco già e vi porto questa survey con questi 150 ristoratori e poi decidiamo se partire, ma tanto so già che c’è un bisogno”.

È una buona validazione iniziale. E poi, appunto, dicevamo il pitch, perché ovviamente uno per fare una startup deve lasciare il proprio lavoro e a volte non è una decisione particolarmente facile. Voi come l’avete affrontata? Avete lasciato subito il lavoro? Se no, come avete fatto a capire quando era il momento giusto di smettere di lavorare i weekend, la notte, e dedicarti a tempo pieno a questa idea?

Inizialmente lavoravamo i weekend e la notte per iniziare a studiare bene il tutto, mettere giù un deck che fosse completo con le varie necessità, i vari passi che dovevamo fare, questa famosa survey che abbiamo costruito, iniziare a pensare a un MVP, eventualmente. Quando avevamo giù un piano ben delineato che ci ha poi permesso di iniziare a convincere i primi investitori, abbiamo lasciato tutto e ci siamo lanciati. Non è stata una scelta banale. Io ero molto contento del percorso che stavo facendo, il mondo del Venture Capital mi piaceva, stavo facendo un bel percorso di carriera e non è facile comunque entrare nel mondo del VC. Quando ci sei dentro è difficile uscirne, però sentivo questa grande necessità (e anche Luca) di costruire qualcosa, di provare a vedere come fosse stare dall’altra parte della barricata, con la consapevolezza comunque che poi un domani, sia che le cose fossero andate bene, sia che le cose fossero andate male, il tornare nel mondo del Venture Capital sicuramente ci saresti tornato più rafforzato. Perché quello che spesso vedo è che a tanti venture capitalist manca aver vissuto l’esperienza da founder, mancano proprio dei pezzi nei consigli che ti danno, perché magari hanno un approccio più da private equity, da investitore. Se riesci a completarlo anche vivendo anche il day by day nel lottare, nel costruire qualcosa, sicuramente poi un domani se devi tornare a fare il venture capitalist, ci torni più forte.

E quindi siete partiti, dicevi, già con un commitement a livello di fundraising, cioè avevate già fundraise una specie di mini pre-seed prima di partire?

Sì, iper mini, però sì.

Quello aiuta, ovviamente, perché per prendere la decisione di partire, quello sicuramente è una cosa che aiuta, perché ci sono dei soldi da spendere e anche un po’ anche per dirsi “ok, c’è qualcuno che ci crede già in questa idea”. E quindi siete ufficialmente partiti nel 2019, e immagino che ci sia stata una buona traction iniziale, ma molto presto è arrivato il 2020, cioè la pandemia e diciamo che il mondo dei ristoranti…non poteva esserci mondo peggiore, perché si è proprio fermato totalmente o quasi. Come avete gestito quel momento? Volevo un po’ riportarti a quei primi mesi del lockdown per capire un po’ come avete reagito inizialmente a questa notizia e come avete fatto a sopravvivere, perché ovviamente siete sopravvissuti e siete comunque cresciuti…insomma, se non cresciuti come vi immaginavate, avete continuato a lavorare anche in quei mesi.

Sì, quello che dico sempre è che già fare startup in Italia è difficile, farlo negli ultimi 3 o 4 anni…manca solo l’invasione aliena, poi abbiamo vissuto tutto. Ti confermo che nel 2019 abbiamo lanciato la soluzione, abbiamo abbordato i primi supplier, poi i ristoratori. Stava tutto viaggiando alla grande, eravamo gasatissimi, perché davvero stavamo crescendo forte, e poi un bel giorno, a febbraio/marzo, tutti i nostri clienti da un giorno all’altro hanno chiuso con il Covid. Lì è stato un momento tragico perché non sapevamo cosa fare. La soluzione è stata iniziare a individuare un trend che stava nascendo, ghost kitchen, cloud kitchen, dark kitchen; il trend della food delivery in generale, perché comunque le persone erano a casa, le pizze continuavano ad arrivare, quindi c’era anche se per poco, 5/10% dei ristoranti erano ancora aperti…abbiamo aggredito quel target di clientela e abbiamo iniziato a parlare con tutto questo movimento che stava partendo che è un movimento innovativo, digitale e parlava la nostra stessa lingua. Quella è stata la nostra salvezza perché, davvero, creavi delle partnership forti. Quindi questo da un lato, dall’altro lato c’è venuta un’idea, ovvero avevamo tutti i supplier a casa che non riuscivano più a vendere i prodotti, perché i ristoranti erano chiusi; dall’altro lato avevamo i ristoratori che erano a casa e non riuscivano a fatturare in alcun modo perché erano chiusi; e dall’altro lato c’erano delle persone che dovevano fare ore e ore di coda per andare al supermercato. Quindi mettendo insieme i pezzi, abbiamo detto perché in questi mesi di puro lockdown non creiamo un modello b2b2c? Ovvero, caro ristoratore, dai un messaggio a tutti i tuoi clienti che sono a casa e digli che da domani possono ordinare gli stessi prodotti che erano abituati a mangiare al ristorante, con la consegna a domicilio. Abbiamo trasformato tutti i ristoratori a casa in nostri agenti commerciali: prendevano l’ordinazione che arrivava ai supplier e i supplier la davano in consegna direttamente a casa delle persone. Questo ci ha permesso di passare dalla grande crescita che avevamo, finita a zero, a crescere ancora più di prima in quei mesi. Questo ci ha giovato molto anche con gli investitori con cui stavamo parlando, perché avevano visto che comunque anche nei momenti di difficoltà eravamo stati in grado di gestirle e anzi approfittarne. Dall’altro lato anche la parte di ristoratori e il mindset dei ristoratori, stava evolvendo, perché comunque il lockdown è servito per digitalizzare tanti pezzi di filiera e far cambiare il mindset di tante persone e sicuramente anche alla ristorazione.

Faccio una mini parentesi. Devo dire che quando sento parlare del lockdown iniziale, mi sorprende ogni volta come abbiamo fatto a sopravvivere, come ha fatto l’economia a non crollare, cioè è crollata, però in realtà in molti modi si è anche rinforzata, ma mi riporta a delle sensazioni veramente di stress. In realtà quello che hai appena detto, si ricollega benissimo a un’idea di cui volevamo parlare velocemente…un po’ delle difficoltà del mercato di adesso, delle difficoltà che le stratup devono affrontare in generale adesso che il mercato si è un po’ rallentato a livello di…siccome abbiamo un mercato molto più soft, si è rallentato anche in termini di capitali che si possono raccogliere, quindi è un’altra fase di difficoltà per le startup e si sente molto parlare di quest’idea che nei momenti di mercato difficile è quando veramente escono fuori le idee migliori, le tecnologie migliori, perché le startup si rafforzano e devono diventare molto più smart su come spendono i loro soldi, non stanno a buttarli facendo hire di cento persone più di quelle che servono. Sei d’accordo con questo trend? Pensieri a riguardo? È vero che le difficoltà rafforzano le startup? Voi ne avete avute tante quindi pensavo che fossi una buona persona per parlarne.

Sono d’accordo parzialmente, nel senso che comunque è vero che riesci a efficientare e sei costretto a efficientare tanti passaggi, però penso che stiamo avendo un momento nel mercato molto complesso, ma soprattutto in Italia dove comunque i fondi di VC sono sempre stati anni luce indietro rispetto a tutti gli altri paesi e abbiamo una grande necessità di far crescere l’ecosistema startup Se ancora di quel poco che c’era lo tagliamo, vedo i prossimi due anni veramente difficili per l’ecosistema tech italiano. Sicuramente puoi fare tutto quello che vuoi, parlo in generale come startup, nel mettere a posto tante cose, efficientare tanti processi, però se alla fine vuoi crescere…una start up deve crescere fortissimo. Se hai le unit economics che girano comunque hai bisogno di carburante perché è difficile. Finisci magari solo con quel creare i cosiddetti lifestyle business dove però non crei il player che prende tutto. Questa è un po’ la mia visione.

Sì, infatti. Io mi sto affacciando un po’ al mondo di Venture Capital italiano, ci sono pochi soldi e i soldi che vengono investiti all’inizio sono pochi per delle evaluation molto basse, che è, secondo me, proprio la formula sbagliata per far crescere una startup. Uno, perché se non hai abbastanza capitali non riesci a fare quel salto, perché con dei seed o anche di 200/300k, quando competi con i seed round fuori, che sono da 4/5/6 milioni, già non riesci a competere con altre start up europee che magari sono competitor nel tuo business. Due, vogliono prendersi delle fette talmente importanti di business che al round 2 praticamente non hai più equity nel tuo business e quindi come fai a tirare fuori tutta quella grinta e quel sacrificio che ci vuole a fare la startupper? Questa cosa veramente non entra nel…magari ditemi se ci sono venture capitalist italiani che sono più anglosassoni di mentalità, ma veramente c’è questa barriera che trovo fortissima, che poi va contro i loro investimenti. Non so cosa ne pensi tu, a chi ti sei affacciato tu, però vedo questo molto diversamente dalle start up inglesi, francesi, in America ovviamente.

Ma ti dico, dalla mia esperienza io mi ritengo molto fortunato perché i venture capital che abbiamo in cap table, io li trovo molto validi, sono molto contento di averli e hanno già quel mindset lì. Però sì, ti confermo che la media dell’ecosistema è davvero tremendamente arretrata, in particolar modo se ti interfacci con chi fa veramente Venture Capital all’estero. Quindi sì, conosco tantissime startup che hanno fatto il vario percorso bene, sano, quello che doveva essere fatto, ma poi magari si trovano iper diluiti, oppure con delle condizioni che non attirerebbero nessun fondo del mondo, quindi una volta che poi devi arrivare a dei ticket da 10, 15, 20, ti trovi già col cappio alla gola, o perché sei troppo diluito o perché hai delle clausole che sono terribili ed è anche uno dei motivi per cui facciamo fatica a prendere certi ticket all’estero.

Assolutamente, infatti mi stava venendo un’idea, Camilla. Dobbiamo fare un Made IT tips focalizzato solo su questo, perché penso che all’inizio un founder abbia bisogno di quel piccolo capitale iniziale e firma delle clausole senza aver veramente capito bene cosa succederà magari 5/6 anni dopo, oppure nei prossimi round. È molto importante sapere anche un po’, essere un po’ istruiti perché comunque sono contratti importanti con clausole importanti, ma lo lasciamo per un altro episodio tecnico. Invece sulla parte fundraising per Deliveristo avevi, ovviamente, la tu esperienza in VC alle spalle, quindi sapevi cosa cerca un VC, avevi quell’advantage di saper parlare un po’ la loro lingua. Come e da chi avete raccolto capitali? E se hai dei consigli su come approcciare al meglio questa fase per tutti quelli che ci ascoltano.

Nella prima fase io consiglio sempre di seguire un po’ il playbook delle start up, quindi la fase delle tre F e poi business angel, e poi fondi di Venture Capital, facendo sempre attenzione a non bruciarsi perché comunque ogni fase è importante e va seguita, non puoi andare subito dai fondi, non puoi saltare la fase delle tre F, quindi quello che consiglio è sempre di seguire…c’è un motivo per cui questi step sono stati dettati dalla Silicon Valley e funzionano. Noi abbiamo cercato di seguire il playbook, quindi all’inizio abbiamo preso le tre F, soprattutto i fools (family, friends and fools) che ci hanno creduto su un Power Point e non avevamo praticamente nulla. Poi superata quella fase, in maniera un po’ più strutturata, siamo andati a fare un gruppo di business angel, abbiamo fatto entrare Italian Angel for Growth che secondo me sono un ottimo punto di partenza per l’ecosistema, e poi fondi di Venture Capital, prima con United Ventures, poi con Vertis. Devo dire che abbiamo una bella cap table di cui sono molto contento.

Una domanda che mi è venuta adesso, come mai dopo la tua…comunque hai avuto un’esperienza internazionale, hai anche toccato un pochino la Silicon Valley, come mai hai deciso di lanciare in Italia? Comunque con tutte le difficoltà. Tante persone nel tech, nel software, non rimangono in Italia, quindi ti volevo chiedere come mai questa scelta.

Sì, perché per quello che dobbiamo fare noi, secondo me non c’è un paese migliore, nel senso che comunque solo la spesa dei ristoranti…Italia e Spagna sono i due mercati più grandi in Europa, in assoluto. Per darvi un’indicazione, in Germania è la metà di quella italiana, cioè vanno a mangiare fuori la metà. E soprattutto perché c’è un’altissima frammentazione del mercato, c’è una valanga di fornitori, piccoli produttori. In media un distributore, un produttore, fa dai 500.000€ di fatturato ai 5/6/7 milioni. È un mercato da 25 miliardi, quindi questa iper frammentazione ci giovava tantissimo, oltre al fatto che comunque è un mercato che conoscevo, essendo nato e cresciuto in Italia, conoscendo anche bene l’ecosistema tech, dei VC. Era un po’ giocare in casa anziché andare in un posto dove non conoscevo e dovevo partire da zero.

Bello, ci piace che anche le tech companies possano nascere qui e, come si dice in inglese, thrive, crescere, espandersi, poi magari conquistare altri mercati da qua. Invece a livello di acquisizione clienti, di crescita del business, questa frammentazione è un’opportunità pazzesca, ma il fatto che l’Italia comunque è ancora molto poco digitalizzata rispetto ad altri paesi, può essere anche un’enorme sfida perché se la persona con cui ti interfacci non usa neanche la mail (perché ci sono ancora persone così). Quindi quali sono state le sfide principali che avete dovuto superare per acquisire clienti?

Ti confermo che all’inizio è stata dura, perché comunque quando devi creare un marketplace, indipendentemente da dove lo devi creare, c’è sempre il chicken and egg problem, dell’uovo e della gallina. Tu non puoi andare dall’offerta se non hai la domanda; la domanda ti dice che non accetta se non hai l’offerta, e quindi qua come fai a snocciolarlo? I libri ci insegnano che devi prendere un verticale molto preciso, targettizzarlo e poi allarghi. Noi per esempio siamo partiti dall’iper alta gamma, quindi siamo partiti dai piccoli produttori, presidi, l’altissima gamma, e abbiamo iniziato a costruire un’offerta con l’obiettivo poi di prendere tutto il mercato, però verticalizzato un segmento molto preciso e poi poco per volta abbiamo iniziato ad attirare l’attenzione, dopo i piccoli produttori, anche dei distributori, dopo i distributori, anche dei Cash and Carry, poi dopo i Cash and Carry, anche dei grandi distributori, quindi abbiamo fatto step by step i vari passaggi. Quello che ci ha aiutato tantissimo, e qua facciamo il passaggio di come delle difficoltà poi a volte possono essere delle opportunità, anche il Covid…nel senso che comunque il mindset, sia del ristoratore da un lato, che quello dei supplier dall’altro, in quegli anni è cambiato tanto. Tante persone hanno scoperto, banalmente, internet, che ci sia l’e-commerce, che ci siano le app. Voi pensate che fino a 6/7 anni fa il ristorante era veramente un luogo carta e penna dove non c’era la food delivery, non si poteva ordinare online, non c’era un menù digitale, non c’era un erp per la gestione di cassa. Voi pensate oggi al ristorante, quello che ha vissuto come stravolgimento in pochissimi anni. Secondo me il momento di ingresso in questo mercato era proprio giusto, siamo finiti negli anni giusti, e questo ci ha giovato, però confermo che comunque l’acquisizione, sia da un lato che dall’altro, è time consuming, ci vanno tantissime energie e non è un sito di e-commerce b2c classico, dove puoi semplicemente, in maniera meccanica, costruire le campagne e poi creare un meccanismo totalmente digitalizzato. Qui la parte fisica è ancora molto importante, quindi noi abbiamo sia una componente di acquisizione digitale, ma che poi viene chiusa da un commerciale fisico. Quindi qua è giusto capire il giusto mix tra quanto è scalabile il digitale e poi una chiusura e un contatto umano che comunque in questo mercato è ancora importantissimo.

Sì, questa cosa in effetti del Covid, poi quando uno guarda indietro, in effetti ha aiutato tantissimo a digitalizzare un business. Magari se voi, se non ci fosse stata questa educazione di mercato dove si sono proprio resi conto che dovevano avere il sito…c’erano brand che non avevano ancora i siti, si sono resi tutti conto che bisogna avere un backup…aiuta. Poi il fatto che certe volte nelle difficoltà è quasi meglio essere early on, piuttosto che avere un team, stipendi da pagare, un burn rate che è una spesa mensile altissima, perché hai tutta una infrastruttura. Certe volte quando arriva all’inizio la difficoltà, ti può stendere, però comunque puoi chiudere anche i rubinetti un pochino più rapidamente che le grosse aziende che si fanno veramente molto più distruggere a livello economico. Quando ci siamo parlati la prima volta, ci hai detto che vedi le start up come delle scale e che ogni scalino rappresenta una fase. Cosa vedi come il prossimo gradino quindi per Deliveristo?

Secondo me creare start up è come giocare a un videogioco o seguire una scala, un po’ come Super Mario, quindi sconfiggi il primo mostro, vai al secondo livello, c’è il secondo mostro, il terzo, poi speri che ad un certo punto arrivi la principessa all’ultimo gradino. Però è così, nel senso che all’inizio le difficoltà sono, banalmente, costruire un team, convincere altre persone della tua idea pazza, poi dopo che hai fatto questo ci sono da convincere i primi investitori, poi c’è da validare l’idea. Se validi l’idea raccogli altri soldini, ti permette di costruire magari anziché un MVP, un prodotto un po’ più solido, poi ti permette di raccoglierne altri, ti permette di costruire un team più valido e di crescere, quindi magari dopo che hai validato una città puoi replicare e costruire il modello su altre città, che ti permette di raccogliere nuovamente. Lo vedo veramente come un processo di validi un qualcosa che ti permette di sbloccare dei soldini che ti permettono di validare qualcos’altro e poco per volta costruisci, step by step. Adesso, dopo che noi abbiamo validato il modello su Milano, la sfida che abbiamo avuto nei mesi scorsi è di replicare il modello su altre città, quindi abbiamo aperto a Roma, Torino, Bologna e Firenze. Adesso il prossimo passo è sicuramente consolidare bene l’Italia, quindi crescere nelle città dove abbiamo seminato e provare a validare il modello anche in una città straniera. Questa è un po’ una sfida che ci siamo dati e che vorremmo provare a vincere.

Ci hai anche detto che secondo te fare l’imprenditore è il lavoro più difficile del mondo. Perché? Puoi elaborare un po’ questo pensiero?

Secondo me perché non puoi essere debole in niente, cioè quello che vedo quando parlo anche con i founder forti…sono persone che comunque non hanno lacune. È difficile, però devi cercare in qualche modo, anche studiando la notte, leggendo libri, guardando video, parlando con altre persone, di non essere debole, nel senso che devi sapere convincere delle persone, quindi commercialmente devi essere forte, devi avere una grande mentalità analitica, perché devi spaccare il capello, soprattutto all’inizio, guardare le metriche, guardare cosa va, cosa non va, quindi devi essere anche un bravo ingegnere. Devi saper curare la parte legale, perché all’inizio devi smazzare le varie clausole che riguardano i contratti e se non sei attento e non hai una forte cultura su quello, finisci per fare quello che dicevamo prima, magari vieni strozzato perché non hai dimestichezza con liquidation preference participating, non participating, etc., quindi basta un minimo dettaglio che poi il castello crolla. È per questo che è così difficile fare startup al di là delle condizioni di mercato, perché basta che fai un errore e sei debole in un punto che poi alla fine quello lo paghi, perché poi costruisci un qualcosa che ha un ramo debole. Quindi sì, credo che fare l’imprenditore sia veramente complesso perché devi cercare in tutti i modi di essere completo. Poi le persone che prendi devono seguirti, devi comunque trasmettere competenza e riuscire a portarle dove vuoi che si vada.

Tu, a livello personale, come stai vivendo questa nuova fase della tua vita da imprenditore? È quello che ti aspettavi, a livello di sensazioni e la tua vita, sei soddisfatto? Hai grande stress?

Grande stress sicuramente, si dorme molto poco, però devo dire anche un’emozione unica, perché comunque poco per volta, man mano che vai avanti vedi nascere, crescere una creatura che prima non esisteva, quindi è veramente un’emozione veder passare quello che all’inizio era un’idea, che poco per volta si trasforma in forma gassosa, poi liquida e poi si solidifica. Quello secondo me è qualcosa di veramente unico e impagabile che ti ripaga le 15 ore di lavoro al giorno, lo stress continuo, i casini, il non dormire, etc. Quindi credo che sia uno dei mestieri più difficili, ma anche gratificanti di tutti.

C’è una cosa in particolare in cui tu ti senti particolarmente forte? Perché comunque quando hai dei co-founders, quella cosa che dicevi prima che devi sapere un po’ di tutto riesci a dividerla su varie persone, quindi c’è chi ha l’expertise…per esempio, nel vostro caso, ristoranti, fornitori, magari parla più con loro. Ci sei tu che, immagino, sei molto sulla parte tech, visto il tuo background, però comunque siete in tre a dividervi tante responsabilità. Quinti tu, secondo te, cosa porti di più all’azienda e qual è il tuo punto forte?

Forse il trasmettere una visione. Secondo me il ruolo principale che deve coprire un CEO è quello di mettere sempre molto in chiaro la rotta, il dove si sta andando. Secondo me i problemi iniziano a crearsi quando qualcuno inizia a dubitare delle decisioni o dell’indicazione da seguire. Questo è un qualcosa su cui mi sento confident, cioè del sapere dove si sta andando, la direzione che si sta prendendo e portare altre persone a seguire quel sogno, quell’idea di dove mi piacerebbe che la società debba andare.

Hai parlato un po’ di libri durante questa chiacchierata, quindi ti volevamo chiedere se c’è uno o più libri che consigli sul mondo startup che ti hanno aiutato in questo percorso?

Io, più che libri, sono un grande mangiatore di video. Passo le mie serate magari facendo un focus di due ore su una lezione tenuta dal founder X in Silicon Valley, quindi ho mangiato tantissimi video in tante serate su argomenti diversi, più che libri che in realtà ho divorato nella mia parte di filosofia e scienza.

Hai qualche risorsa da consigliare? Non so se sono su Youtube questi video, perché comunque è sempre molto utile, ci piace dare dei consigli tangibili che permettano proprio di cliccare e andare a guardare. C’è qualcheduno che segui, una piattaforma?

Guarda, banalmente, Youtube. Secondo me trovi abbastanza di tutto, quindi a seconda di dove devi diventare forte in quel periodo. Non so, vi faccio un esempio: c’era un momento in cui dovevamo passare in un meccanismo agile, anche nello sviluppo, quali sono le best practice della costruzione di un team. Se su Youtube digiti “costruzione di un team in agile con queste caratteristiche per portarlo da X persone a Y persone”, ne escono valanghe. Io sono un grandissimo consumatore di Youtube nelle varie fasi di vita, perché poi in ciascuna fase hai bisogno di cose diverse. A me ha aiutato personalmente tantissimo. Sembra una banalità, ma poi alla fine nelle banalità si trovano le risposte e io ne ho trovate tante, quindi assolutamente consiglio Youtube. Mentre i miei co-founders sono molto più lettori, quindi i vari classici, From Zero to One etc. Ci siamo un po’ compensati e poi quando ci trovavamo nei meeting a parlare avevamo punti di vista diversi. Blu Ocean Strategy, insomma i classici della letteratura di startup.

Siamo arrivati alla fine, ultimissima domanda, ti volevamo chiedere, secondo te, in che modo la tua italianità ha contribuito al tuo successo o ti ha aiutato nel tuo percorso?

Sarei cauto a parlare di successo, nel senso che comunque è un qualcosa che dobbiamo costruire e siamo solo agli inizi, quindi c’è tantissimo lavoro da fare. L’italianità, secondo me, nel mondo Food, che è quello in cui stiamo costruendo…io credo che se l’Italia debba puntare a costruire qualcosa di forte, deve farlo nei segmenti in cui è forte. Quello che dico sempre è che trovo difficile riuscire a costruire the next big thing in Blockchain o Artificial Intelligence in Italia. Poi magari ce la facciamo, però, voglio dire, qua la nostra cultura è il cibo, il mondo del cibo, il Food. Noi dobbiamo diventare i pionieri al mondo del Foodtech. Questa è la mia idea, piuttosto che nel Fashiontech, nei dispositivi medicali, nel Digital Health. Noi dobbiamo puntare in quei segmenti dove l’Italia è fortissima. Il mondo del Food è dove siamo sempre stati i primi al mondo e non possiamo farci mangiare, com’è stato fatto nel Food Delivery nel b2c, etc. da altri player che arrivano da fuori, oppure, ad esempio, oggi substituted meal stanno creando una rivoluzione enorme, dove noi siamo anni luce indietro. Non deve succedere, a mio modesto parere, quindi sicuramente questo è il verticale dove noi dovremmo puntare molto di più di quello che stiamo facendo e contiamo nulla. Corriamo grossi rischi di perdere il valore che abbiamo.

Appello a tutti quelli che ci ascoltano di pensare di aiutare l’Italia, noi ne parliamo spesso, di portare dei business che magari noi vediamo come super ovvi o tradizionali, ma che possono avere una iterazione digitale per permettere di sopravvivere e tenere la nostra posizione come i numeri uno, o comunque come leader in quel settore anche nei prossimi anni, perché le cose cambiano continuamente. Quindi grazie mille Ivan, è stata veramente una bella chiacchierata, è stato bello scoprire il tuo percorso, da dove vieni e soprattutto riflettere su tanti temi legati al mondo startup e scoprire la storia di Deliveristo, che sicuramente ispirerà tanti dei nostri ascoltatori.

Grazie mille a voi per l’invito, è stato un piacere.

 

 

 

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