Mollare tutto e ricominciare da zero per rivoluzionare il settore fintech con Francesca Carlesi, Founder & CEO di Molo Finance

 

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Questa settimana abbiamo avuto il piacere di intervistare Francesca Carlesi, co-founder e CEO di Molo Finance, la prima start-up fintech in UK a fornire mutui attraverso un processo interamente online.
Francesca è arrivata ai vertici del mondo della consulenza come Partner da McKinsey & Company e poi del banking da Barclays come Global Head di Business Strategy e poi come Chief of Staff e Global Head of Regulatory Affairs da Deutsche Bank prima di lanciarsi, e fondare una start-up.
Cosa l’ha spinta a farlo? Secondo voi è stato più facile ricominciare da zero con una carriera del genere alle spalle?
Lo scopriremo nella nostra chiacchierata ricca di spunti e riflessioni.

Francesca e il suo socio hanno lanciato sul mercato nel 2019,  in pochi anni  raccolto £38 milioni in equity e oltre £500M a debito in 3 round di finanziamento. Superato l’impatto del covid, nel 2021 la startup è cresciuta di 3x su base annua media e si appresta a raggiungere il break even a inizio 2024.
Molo è entrata nell'elenco delle 100 migliori startup del Regno Unito per 2 anni consecutivi e, dopo l'accordo di investimento con il leader australiano ColCap, mira ad espandersi a livello internazionale.
Seguendo il percorso di Francesca abbiamo cercato di capire da dove viene la sua ambizione e cosa l'ha portata a mollare tutto per ricominciare da zero e lanciare questa startup.
Spoiler: non e’ stato un percorso semplice!

 

Per cominciare ti volevamo chiedere se ci potevi raccontare un po’ del contesto nel quale sei cresciuta e se da ragazza avevi già idea della carriera che avresti voluto intraprendere. Ci sono dei valori particolari che i tuoi genitori ti hanno trasmesso?

Io ho avuto un’infanzia abbastanza normale. Sono cresciuta a Roma e sono stata a Roma fino all’università, quindi direi tanto visti i canoni di oggi. Ho una famiglia abbastanza normale, un fratello, ho fatto il liceo classico. Fino al liceo non avevo grandi idee…anche di voler andare all’estero e, anzi, in termini di cosa volessi fare, io direi che ho sempre avuto le idee abbastanza confuse, cioè non sono stata una di quelle persone che aveva dall’inizio…io avevo degli amici che dicevano “io voglio fare il medico chirurgo di questa specialità”. Per me assolutamente no, dicevo “ma chissà, teniamoci più opzioni aperte possibile”. Poi infatti ho fatto Economia e commercio, che è una facoltà che ti apre tantissimo. In termini di valori è interessante perché fa riflettere che i miei…forse se io dovessi distillare, direi che sicuramente una cosa me la sono portata sempre un po’ dietro, forse inculcata dalla gioventù, è il fatto di hardwork. Alla fine nulla viene for free, se ti dai molto da fare puoi ottenere più o meno quello che vuoi. Questa è sempre stata una cosa che mi sono portata dietro, e che secondo me è stata molto dettata fin dall’inizio, però una seconda cosa che mi viene in mente, che secondo me è veramente partita dall’inizio, è questa idea di follow your dreams, nel senso che non mi sono mai sentita limitata nelle cose da fare, anzi, i miei mi hanno sempre molto spinto a seguire quello che volevo fare e di non crearmi troppi problemi che poi una soluzione si sarebbe trovata. Secondo me queste due cose mi hanno molto influenzato poi andando avanti, senza rendermene conto.

Eri una brava studente? Avevi un po’ le idee confuse al liceo, ma eri una brava studente?

Direi di sì, forse qualcuno, malignamente, direbbe che ero un po’ secchiona. La verità è che a me è sempre piaciuto studiare, proprio tanto.

Beata te!

Esatto! Io a scuola sono sempre andata molto bene, poi sai, adesso non so più com’è…il liceo classico è stato difficile, poi facevo molte cose in parallelo, però mi è riuscito abbastanza agevole, avevo dei voti alti, i professori mi volevano bene, e lo stesso all’università. Però se penso perché, non è stato proprio così a caso, perché io alla fine effettivamente studiavo tanto, però mi piaceva, faceva parte del mio “follow your passion”. Io mi divertivo, era anche un modo per esplorare, di conoscere nuove cose.

Infatti la prima volta che abbiamo parlato con te, ci hai detto che in realtà, all’inizio, mentre stavi studiando all’università, volevi proseguire con una carriera accademica, ed è perché ti piaceva studiare, ti divertiva, era una via che ti attraeva o c’erano altre ragioni?

A me interessava, mi è sempre piaciuto lo studio e anche l’approfondire le cose, e più che altro mi è riuscito abbastanza agevole, quindi il tema della carriera accademica è partito da questo, però culminato con l’idea…mi ero fatta questa idea che nella carriera accademica tu dovresti essere la fonte delle novità. Questo anche perché ho fatto uno scambio con gli Stati Uniti, dove se fai un PhD sei veramente la startup della ricerca, nel senso che sei sempre ad esplorare nuove cose. A me piaceva molto questa idea di scoprire nuove cose e fare ricerca, che sono due cose di frontiera; e poi c’era anche il fatto che comunque quella dell’università è un tipo carriera ti dà molta flessibilità, non solo familiare, ma anche di fare altre cose. Univa tanti aspetti di ciò che mi piace. L’ultimo che direi, che anche questo poi mi sono resa conto…a me piace insegnare, mi piace trasmettere, soprattutto ai giovani…penso sia una delle fonti di maggiore reward. Unendo tutti questi aspetti, ho detto “on paper è perfetto, sarebbe la cosa giusta per me”.

Infatti la prossima domanda che ti volevamo fare è poi però non hai proseguito…

Poi non l’ho fatto!

Esatto, poi non l’hai fatto e sei andata a lavorare da McKinsey, una delle più grandi società di consulenza al mondo. Come sei arrivata proprio lì? Qualcuno ti ha convinta sui benefici della carriera in consulenza? Com’è successo?

Penso sia abbastanza interessante anche dal punto di vista di scelte di vita, dilemmi. È stato forse il mio primo momento di scontro con questa differenza tra good on paper, quindi carriera accademica, e i tuoi istinti o quello che ti senti di fare. Il tema di McKinsey è emerso perché io avevo fatto uno stage in consulenza durante l’università. Ho ricevuto un’offerta da McKinsey e fondamentalmente non ero andata avanti per poter fare il PhD, che all’epoca molti mi avevano detto “sei una pazza”. Poi è successo che io, avendo iniziato il dottorato tra l’America e l’Italia, dopo un po’ mi sono resa conto che questa idea concettuale che mi piaceva lo studio, mi piaceva insegnare, era tutto perfetto, ma nella pratica non lo era, perché mi sentivo chiusa in un mondo molto poco internazionale, molto poco a contatto con le persone. Razionalmente era la cosa giusta da fare, ma emotivamente avevo voglia di esplorare nuove cose, e McKinsey era un bellissimo mondo, c’era un’apertura internazionale enorme, tutta gente molto intelligente, quindi diciamo che ho fatto un pivot, come diresti nel mondo startup oggi. Quindi dopo un anno e mezzo di dottorato (quasi due), ho deciso di…è stato abbastanza tormentato all’epoca, avevo 23 anni, non sapevo se fosse la cosa giusta o no, però sono stata molto contenta.

Ci piace sempre fare queste domande, capire cosa c’è dietro certe scelte, perché penso che tutti noi siamo costantemente in momenti in cui dobbiamo scegliere e sono delle scelte talmente importanti che poi vanno a definire anche…sono quegli sliding doors moments di una vita completamente diversa, a seconda che uno faccia una scelta o l’altra, quindi è interessante capire come l’hai presa. Sei poi rimasta da McKinsey per molti anni, lavorando su progetti M&A e diventando poi anche partner, che sicuramente è un achievement che in tantissimi sognano. Ti volevamo chiedere se è stato duro per te e aggiungerei anche in quanto donna, perché comunque è una carriera che all’epoca, inizio anni Duemila, era molto dominata da uomini. Lo vediamo tutt’ora, quindi figuriamoci all’epoca. Arrivare a certi traguardi è stata dura? Quali sono stati gli ostacoli più duri che hai dovuto superare?

Innanzitutto chiarirei che io non sono mai stata una grandissima…vorrei sfatare questo mito del femminismo eccessivo. Avendo visto vari ambienti, sia in consulenza, sia banking, adesso startup…in realtà io non mi sono mai posta questo problema se ci fosse discriminazione donne o non donne e, devo dire la verità, non ne ho neanche mai sofferto in modo troppo forte, con poche eccezioni. Cerco sempre di essere oggettiva su questi temi, anche perché a volte diventa anche una scusa, un alibi. Se torniamo a McKinsey, io mi ricordo di un periodo bellissimo, per me è stato un periodo molto interessante, molto stimolante intellettualmente, di lavoro sempre molto interessante con persone da cui si imparava sempre. Per me questo è importante, lavorare con persone che ti spingono e da cui continui ad imparare. Tra l’altro in cui c’è stata un’enorme apertura internazionale…insomma un periodo per me bello e di cui ho un ricordo molto positivo e non ho nessun ricordo dal punto di vista di differenziazione di trattamento tra donne e uomini, quindi vorrei un po’ sfatare questo mito. D’altro canto ci sono da dire due cose, è vero che se prendiamo McKinsey, se prendiamo l’Italia, per tantissimi anni, fino a pochi anni fa, non c’è quasi mai stato un partner donna. Questo è un fatto, quindi qualcosa c’era. Secondo, il tipo di vita è molto intenso, quindi se dovessi dire quali sono le vere challenge, le sfide che ho dovuto affrontare, non era un tema di discriminazione, anche perché quello è un ambiente molto meritocratico, ma più un tema di opt out. Riflettendo sul perché, la verità è che c’è un punto oltre il quale…quello è un tipo di lavoro molto intenso per tutti, uomini e donne, in cui si viaggia molto, in cui l’aspettativa è che si lavori più o meno sempre. Va benissimo, forse fino a un certo punto in cui le esigenze cambiano. La dinamica che io ho osservato in McKinsey, attraverso vari uffici, quindi non solo in Italia, ma anche all’estero, è più che altro sono le donne che a un certo punto dicono “non fa più per me” e, anzi, io direi che McKinsey ha fatto tantissimo per migliorare questo panel, però è un tema che secondo me vale in tanti ambienti. Non è tanto un tema di discriminazione, più che altro si tratta di un ambiente lavorativo che molto spesso è strutturato su delle esigenze, storicamente, di un certo tipo, che non sono un buon fit per una donna che cerca figli o famiglia. È molto diverso e l’unico modo per cambiarlo è che ci sia una massa critica di donne che lo capisca e che sia in grado di cambiare quelle condizioni lavorative. Per chi ci ascolta, soprattutto per le ragazze giovani che ci ascoltano, forse un altro mio insegnamento è stato, da questo punto di vista, quello di non farsi ingannare dalle apparenze, nel senso che anche all’inizio, nel momento in cui ho scelto di cambiare carriera e di andare da McKinsey in consulenza, c’erano molte voci intorno a me che dicevano “non dovresti farlo, perché non avrai mai una famiglia” e cose del genere che, secondo me, c’è ancora molto. Quando sei giovane e non sai com’è il mondo, è molto facile che ti lasci influenzare. La mia scelta all’epoca è stata di dire “proviamo, tanto posso sempre cambiare” e in realtà mi sono resa conto che era molto molto diverso, quindi suggerirei a tutti di vedere con i propri occhi, perché molto spesso ci sono dei miti che non sono poi veri nella realtà.

Dico un’altra cosa a cui penso sempre, e cioè non limitarsi prima di avere quella famiglia. Molto spesso le donne a 19 anni dicono “non posso fare consulenza perché voglio avere una famiglia”. Magari la famiglia arriva quando ne hai 35 e intanto hai fatto una super carriera. Poi puoi sempre cambiare o quando sei già partner puoi gestirti meglio la tua vita. Quindi non limitarsi prima.

Esatto Camilla, questo lo ripeterei ancora, perché è esattamente stato…mi ricordo, come se fosse oggi, la mia riflessione all’epoca. Perché ho pensato, sai che c’è? Adesso inizio, se poi tra tre anni voglio ritirarmi a casa e non fare niente, almeno lo posso fare. Però in realtà tu facendo le cose, facendo delle esperienze, innanzitutto costruisci esperienza e poi scopri nuovi mondi e quella piattaforma ti può portare anche da qualche altra parte. Se invece non fai niente, non ti apri nuove porte, quindi penso che condividiamo la stessa view.

Parlando un po’ del tuo percorso, qua inizia di nuovo un capitolo “studio”, perché dopo qualche anno da McKinsey hai deciso di fare una pausa per andare a fare un MBA. Sei andata a Columbia, New York. Ci puoi raccontare un po’ cosa volevi raggiungere facendo l’MBA? Qual era la tua massima ambizione all’epoca? Perché hai preso questa decisione? So che è una decisione che prendono tanti ragazzi che fanno l’MBA, perché c’è anche il beneficio che spesso le società di consulenza sponsorizzano questo MBA ed è anche un mondo che ti apre tantissime porte, quindi volevamo scoprire un po’ la tua esperienza.

Sì, volentieri. Qui capirai perché per il fatto che mi piaceva studiare, trovavo sempre qualche scusa per trovare il momento per fare cose più riflessive. Allora, innanzitutto la mia è un’esperienza che adesso è sempre più diffusa, in particolare per chi fa consulenza va a fare, anzi le società sponsorizzano, e che io consiglio a tutti di fare. Nel caso mio, tuttavia, non era così scontato, quindi per me c’è stato un altro processo decisionale un po’ difficile perché, avendo già fatto un dottorato, onestamente, è un po’ un overkill andare anche a farsi un altro master, e non era necessario dal punto di vista di McKinsey, perché ero in un percorso già un po’ più avanzato. Però io avevo voglia di apertura al mercato internazionale e di andare negli Stati Uniti. Chiaramente, andando all’MBA, si incontrano persone di diversi background, che era una cosa che io volevo esplorare. Alla fine se tu fai un certo lavoro a Milano, incontri sempre persone che hanno fatto lo stesso lavoro a Milano. Quando vai a un MBA, la cosa più bella, per me, è che sei immerso in un ambiente totalmente internazionale, molto più americano, ma anche molto diverso dal punto di vista di background. Nella nostra classe c’erano persone che venivano dall’esercito, erano artisti, medici, che usano l’MBA come cambiamento di carriera. Per me era un tema di venire a contatto con realtà diverse e costruirmi un network pochetto più ampio, perché alla fine sono curiosa di capire cos’altro si può fare. Poi c’era una voglia di prendermi una piccola pausa. Come dicevo, il lavoro da McKinsey è intenso, quindi volevo prendermi una pausa di riflessione, perché quando sei immerso in un tipo di lavoro e di vita molto intenso, è difficile pensare, fermarsi e dire “cosa voglio fare in 5 anni”. Quindi, secondo me l’MBA, per chiunque lo stia valutando, è anche un bellissimo momento, dopo aver lavorato un po’, per prendersi cura di sé stessi e pensare what’s next. Sono due anni speciali, dedicati a te stesso. L’ultima cosa che direi è che per me non era una scelta scontata, in realtà non avrei dovuto farlo, però avevo questa voglia di farlo per tutti questi motivi. Diciamo che poi il trigger “decisione finale” è venuta anche a seguito di un po’ di discussioni con persone di McKinsey, mentor. Mi ricordo sempre che un senior partner mi disse…gli chiesto “cosa dice? Lo dovrei fare o non lo dovrei fare?”. Simile a prima, on paper non aveva nessun senso per me farlo dal punto di vista strettamente di carriera, però da un punto di vista strettamente di istinto avevo molto voglia e la risposta è stata semplice: “dipende dal tuo livello di ambizione”. Per me è stato un major statement, che ho applicato poi varie volte e che suggerirei a tutti di applicare. Alla fine non c’è giusto o sbagliato in quello che vuoi fare nella vita, dipende da te, dipende da quali sono gli obiettivi che ti dai, che puoi definire come ambizioni, puoi definire come personal experience. Per me quello è un po’ rimasto come una frase che…e allora ho detto “io vado”, perché per me non è un tema di accelerazione della carriera, è un tema di esperienza più ampia.

Poi nella tua domanda c’è anche sempre quella parte di istinto. Appunto, di istinto avevi voglia di farlo, poi magari se uno si mette a fare i pro e contro di solo le cose razionali per la carriera…a volte bisogna lasciare perdere un po’ quella parte in questi momenti, soprattutto dove la pancia è molto forte. Parlando di ambizione, dopo l’MBA non sei tornata subito da McKinsey, sei andata da Bridgepoint, che è un fondo di private equity molto riconosciuto. Conoscendo persone che hanno fatto l’MBA, sono sicura che fosse uno dei lavori di massima ambizione, e soprattutto il pivot da consulenza a private equity è molto ambito. Cosa ti ha spinto in quella direzione? Hai seguito questo consiglio di qual è la tua massima ambizione?

Sì, per me è stato tutto un po’ più istintivo. Andando a fare l’MBA, come dicevo prima, l’ho visto anche come un momento di riflessione per poter incanalare il mio prossimo passo in una direzione che fosse un po’ più quella in cui strategicamente volevo andare. Il private equity in quel momento, a parte che andava di moda, mi sembrava lo step successivo giusto, perché anche in McKinsey ho fatto molta finanza, però in consulenza si rimane un po’ più distanti dalla realtà. Sostanzialmente avevo voglia di mettere un pochetto di più le mani in pasta, quindi a questo punto se io voglio fare finanza, ma diventare un po’ più operativa, la cosa perfetta è andare a fare l’investitore”, perché in private equity…il fondo Bridgepoint non è uno di quei fondi enormi, era un po’ più market, in cui lavori con il team a supporto delle aziende e sei parte della definizione di una strategia, ma anche di farla realizzare. Quindi era il bilanciamento ideale nella mia mente, all’epoca, tra la mia passione per strategia e finanza, però essendo un po’ più coinvolta, piuttosto che dare solo advice. Avevo questa voglia di mettere un po’ più skin in the game.

Faccio questa domanda, soprattutto perché giocherà un ruolo nella domanda successiva: eri già sposata, avevi già dei figli a questo punto? A che punto della vita sono arrivati?

Io sì, ero già sposata. Mi sono sposata subito prima di andare all’MBA e, anzi, abbiamo deciso di sposarci che io dovevo partire per l’MBA, quindi ho spostato l’inizio dell’MBA. Mio marito mi ha detto “noi ci sposiamo e poi tu te ne vai”, quindi siamo andati insieme. Lo abbiamo spostato di 6 mesi per cercare di andare insieme a New York, che all’epoca non era banalissimo, perché io ero stata ammessa a Columbia, ho detto “adesso non mi vorranno più”, invece poi siamo riusciti a spiegare. Quindi mi sono sposata subito prima di andare all’MBA, abbiamo posticipato per poter andare insieme, ho iniziato l’MBA e verso la fine dell’MBA sono rimasta incinta, quindi ho fatto un pezzo di MBA incinta. Per quelli di voi che hanno fatto l’MBA, sanno che forse non è l’ideale, visto che ci sono anche molti eventi sociali. Sostanzialmente ho fatto tutte le mie imprese lavorative di fine MBA con la pancia di 8 mesi. È stato abbastanza particolare, però la verità è che è la vita, cioè alla fine uno ha il lavoro, ha la famiglia e deve riuscire a giostrarsi queste due cose insieme.

Ti ho fatto questa domanda perché, appunto, sempre parlando di compromessi, giocherà un po’ un ruolo nel tuo prossimo passo, che è tornare da McKinsey per aprire tutti i loro uffici…insomma la loro presenza in est Europa, facendo base in Bulgaria, che è un lavoro che coincideva con quello di tuo marito, che era stato chiamato in quella parte del mondo e quindi hai trovato un modo molto interessante per seguirlo. Questo ruolo da McKinsey non era più esattamente quello di consulenza, ma era quasi più un manager che doveva aprire tutti questi uffici e, immagino, anche un ruolo molto imprenditoriale. È lì che hai scoperto la tua passione per il mondo dell’imprenditoria e le prime sensazioni in quella direzione?

Allora, direi più o meno di sì, anche se forse all’epoca ne ero poco consapevole, perché poi le cose le maturi dopo. In effetti dopo essere tornata da Londra, da Bridgepoint, dopo un po’ è emersa questa opportunità per mio marito di andare in Bulgaria che all’epoca non era proprio considerato come New York. Nel decidere cosa fare…si torna alle scelte di prima, alla fine bisogna un po’ trovare dei compromessi alle volte, e quindi abbiamo deciso di spostarci a Sofia, che è stato per me lasciare private equity e questo mondo interessante e ripensare che la cosa più importante è avere una vita in cui ci sono varie dimensioni, non solo il lavoro. Andare in Bulgaria è stata una cosa un po’ fortuita, però io penso che nella vita ci sono anche le coincidenze fortuite che poi capitano, per strani motivi, nel momento giusto, perché in realtà io non avevo idea che McKinsey fosse in Bulgaria. Io sono stata contattata da McKinsey quando avevano capito che sarei andata lì, perché c’era da mettere in piedi un ufficio da zero e, ovviamente, è utile se lo fa qualcuno che sa come funziona l’azienda. È stata una bellissima esperienza, perché poi alla fine avevo la possibilità di mantenermi in un’azienda internazionale che conoscevo bene, con certi standard di professionalità, in un paese che all’epoca era molto indietro e che era proprio un greenfield. È stato molto interessante perché non ho più fatto solo consulenza, ma tutta la strategia su come aprire un ufficio, mettere su un team. Avevamo l’ufficio in un appartamento all’inizio…queste cose un po’ più vicine al mondo di una startup che quindi mi ha fatto cominciare a capire che era molto interessante.

Hai poi avuto una carriera, anche dopo, molto impressionante, però vorremmo arrivare a Molo perché se no il nostro episodio durerà tutta la giornata. Però, giusto per dirla in breve, dopo questa esperienza in est Europa, andrai da Barclays come Global Head della strategia nella parte di retail banking e poi farai anche un breve passaggio da Intesa Sanpaolo nel team del CEO, e finalmente vai da Deutsche Bank come Chief of Staff e Global Head of Regulatory Affairs. Ci avevi raccontato che quando eri da Barclays ti sei innamorata del fintech, che sarà poi il settore della tua startup. Cosa ti ha colpito del fintech?

La cosa che mi ha più colpito…perché all’epoca erano tempi diversi, non era un momento in cui si parlava di fintech tutti i giorni, era un momento in cui ancora le banche dominavano come contesto. Cominciavano ad esserci delle piccole società, a Londra, di fintech, che cominciavano ad essere nominate.  La cosa che mi ha colpito è come la tecnologia potesse completamente cambiare le regole del gioco e potesse rendere possibili delle cose che erano considerate da tutti impossibili. Questo per me è stato un eye-opener. In quel momento mi sono resa conto che poter sfruttare la tecnologia è una di quelle cose più vicine a darti un senso di magia, nel senso che la tecnologia fatta bene, soprattutto per i prodotti consumer, deve darti questa sensazione di magico, che è fantastica. Se oggi noi pensiamo anche alle esperienze comuni (compriamo una cosa da Amazon e ci arriva dopo un’ora, apriamo un conto corrente e neanche ce ne accorgiamo) non sono cose che 5 o 10 anni fa erano possibili. In particolare da Barclays abbiamo speso mesi a discutere…la cosa che era considerata più impossibile era aprire un conto corrente senza andare in una filiale. La teoria era che era impossibile e che Barclays non lo avrebbe mai potuto fare, per temi regolamentari. Oggi è la normalità. Questa è una cosa che mi è rimasta: le cose che oggi tutti noi consideriamo siano impossibili e non siano la normalità, domani saranno banali. Quindi da quell’esperienza lì mi sono portata questo senso di magia ispirato dalla tecnologia, e la capacità di pensare di dover fare challenge allo status quo, perché lo status quo è tale finché nessuno gli fa challenge, ma in realtà il mondo del possibile è molto più ampio.

Quando hai iniziato a maturare l’idea che forse avresti potuto lanciare una tua startup in questo settore e, data la tua carriera fino a quel momento, non ti sembrava un’idea un po’ folle, che le startup le facevano i ragazzini di 19 anni, i dropped out dall’università? Le persone intorno a te cosa dicevano, cosa pensavano?

Sì, non vorrei banalizzare, cioè è una scelta comunque importante. Dentro di me ho cominciato a pensarlo almeno due anni prima di farlo, quando ero in Deutsche Bank, ed è emerso dai tempi di Barclays, quindi qualche anno prima... avevo deciso che questa parte della tecnologia era il futuro e che le banche erano posizionate in modo fantastico per poter cambiare un po’, digitalizzare tutto, però attraverso le varie banche in cui sono stata, la mia missione era di farlo accadere dentro la banca. Quindi con Barclays, con Intesa, abbiamo provato…anche con Deutsche Bank, abbiamo presentato una proposta di lanciare una banca digitale, che nessuno sa perché poi non è andata a avanti. Il tema dell’innamoramento per la tecnologia era iniziato da tempo, però pensavo che si potesse far accadere all’interno del sistema. Dopo essermi scontrata con 2 o 3 banche in cui non accadeva nulla, ho capito che la vera disruption non poteva accadere da dentro e che è abbastanza normale. Negli ultimi 2 anni in cui ero in Deutsche Bank, ho cominciato a pensare che se io voglio essere posizionata sul futuro, mi piace costruire cose, fare cose che sono più orientate alla crescita piuttosto che no, ho capito che, purtroppo, la vera disruption poteva solo accadere all’esterno del sistema e quindi tramite il sistema imprenditoriale, quindi facendo una startup, partendo da zero, non avendo legacy, non avendo politics. Quello è stato un grosso momento di consapevolezza, perché fino a un certo punto pensavo veramente che si potesse fare accadere. L’idea ce l’avevo da un paio di anni e dopodiché c’è stata l’occasione, il co-founder giusto, la situazione giusta. In termini di salto, mi chiedevi se è stato un po’ difficile…sicuramente sì. Anche le persone più vicine a me mi hanno detto “ma perché? Chi te lo fa fare?”. Poi alla fine quando si inizia una startup, dal punto di vista finanziario, non conviene per niente, da un punto di vista di rischio neanche. Nel mondo del banking è una vita abbastanza tranquilla, in cui sei tipicamente anche sovrapagato. Dal punto di vista logico, razionale, non aveva nessun senso e ho avuto molto challenge. Sono ritornata un po’ a questi principi, che poi mi rendo conto che partono dall’inizio della tua vita…che, alla fine, non è giusto, non è sbagliato, ma dipende da cosa vuoi tu, dipende da what’s your level of ambition, dipende da what’s your mission, what’s your dream e quindi per me c’è stato un senso di “se non lo faccio adesso, non lo faccio più”. Ho seguito di nuovo l’istinto.

Questa è una bella occasione, di venire su Made IT, per riunire tutti i puntini sulle i di tutto il tuo percorso dietro, e poi perché sei arrivata a prendere certe decisioni…sicuramente di grande ispirazione per tutti quelli che ascoltano. Tra l’altro mi sono ritrovata molto in quello che hai detto sul provare a fare accadere questa cosa dentro Barclays, perché anche io, quando ero Estée Lauder, in corporate, ero una di quelle persone che portava tante idee, ero gasatissima…poi mi rendevo conto che venivano ascoltate, ma poi non si faceva niente. Poi magari 4 o 5 anni dopo compravano la startup di quel settore e tu dicevi “ma scusa, sono 5 anni che sto dicendo che dobbiamo fare questa cosa”. Alla fine è un’opportunità per le persone della corporate di uscire, cercare di risolvere un problema della corporate e poi magari qualche anno dopo uno gliela vende. È assurdo, ma funziona. Mi sembra così in quasi tutte le grosse aziende, l’innovazione la acquistano più che farla in house. Tu e il tuo co-founder, che era un ex collega di McKinsey, siete partiti da zero, in due, in un Wework, che deve essere stato un bello shock dopo una carriera in grosse banche commerciali con mega uffici, staff. Quali sono stati gli aspetti più difficili, per te personalmente, degli inizi?

Innanzitutto direi che, onde evitare dubbi, il percorso di una startup è difficile, e lo dico più che altro perché in questo percorso incontri tante persone giovani e secondo me a volte c’è una mitizzazione del mondo startup nei social media. Quello che si vede all’esterno è sempre molto positivo, un po’ roseo, ma non è assolutamente così ed è importante che sia chiaro, soprattutto per le persone giovani che pensano di voler intraprendere questo percorso. In generale, l’aspettativa deve essere “sarà un percorso molto bumpy”. Nel mio caso in particolare, soprattutto all’inizio… per me forse ci sono stati 2 o 3 elementi più difficili. Uno, il primo round di funding…io penso che quello sia sempre un battesimo del fuoco, è difficile soprattutto se non l’hai mai fatto. Io venivo dal mondo banking ed è stato buono avere come co-founder una persona che aveva già fatto startup e che aveva un network di investitori, però comunque il primo round è tosto, soprattutto se non sai come funziona. È tosto perché devi abituarti a ricevere un sacco di no. Non puoi pretendere che tutti siano innamorati della tua idea, quindi devi saper incassare i no, ma sapere imparare da questi, però anche ascoltarli e andare avanti. È un momento di grosso learning, però anche difficile se non hai un po’ di resilience. La seconda sfida grossa è stata per me il tema people, che non mi sarei mai aspettata, nel senso che…non assumere persone, quello è stato molto più facile del previsto, che è una cosa interessante, ma gestire il team di una startup mentre la startup evolve è stato non facile. Si parte in modo quasi naive, cioè si parte come un gruppo di amici. I primi che si uniscono all’idea si pensa che saranno legati a vita, ma purtroppo non è così e questo è un momento di verità difficile da affrontare per una come me che pensava “noi, i primi 5, saremo best friends forever”. Non è così perché nel percorso di una startup si cresce velocemente, le esigenze cambiano e, o le persone evolvono in linea con la startup, o non sempre possono continuare il percorso. Ci sono stati momenti molto duri di decisioni anche difficili che devi prendere che però non ti aspettavi. Dal punto di vista delle relazioni personali è come dire che i tuoi amici di infanzia a un certo punto devi lasciarli, e lo fai varie volte. Forse la terza cosa che direi, da un punto di vista di sfide personali in questo percorso, è stato il balancing act. Ero partita con l’idea che per avere successo, dovessimo soprattutto avere successo dal punto di vista del prodotto, dovessimo creare un buon business. Mi sono resa conto che, in realtà, il successo di una startup dipende da così tante variabili, di cui una è il business e il prodotto, ma devono allinearsi così tante stelle che devi saperlo. Purtroppo tantissime società che hanno una buonissima idea e anche un buonissimo prodotto, magari non riescono ad andare avanti per altri temi. C’è il tema prodotto, c’è il tema investitori (avere i giusti partner è fondamentale), c’è il tema team, più fondamentale del prodotto. Lo so che si dice sempre, ma è vero. Quindi dover capire gradualmente che il mio tempo non poteva essere dedicato solo a una cosa, ma era molto importante allineare tutti questi elementi, è stata un’altra grossa lezione, però anche un grosso challenge in alcuni momenti, perché comunque noi abbiamo dovuto avere discussioni, investitori che non andavano, partner che non andavano e quello è sempre un po’ pesante.

Aggiungerei che siete partiti con un’idea estremamente ambiziosa, perché l’idea era quella che ora forse è normalità, ma al tempo era quasi considerato impossibile, che era essenzialmente costruire una banca per poter dare mutui con una decisione istantanea a chi faceva application tramite il vostro server. Di base, costruire una banca vuol dire avere tantissimi capitali, perché devi avere capitali da prestare, avere un grande team. Ti serve molto tempo per mettere insieme questa cosa, quindi serve finanziamento quasi da subito e anche un round abbastanza grande. Non si può partire con 20.000€. Come vi siete strutturati per riuscire a sopravvivere agli inizi e arrivare a quel primo round? Da dove siete partiti?

Hai ragione Camilla, perché il progetto era abbastanza ambizioso e, tra l’altro, ci siamo arrivati lì, perché l’idea originaria era molto più light touch, che era quella di non fare una banca, non fare il land, ma fare solo una sorta di broker. Studiandolo, però, ci siamo resi conto che così non riuscivamo a risolvere i problemi dei clienti, che era questo instant decisioning, quindi siamo stati un po’ forzati a dire “dobbiamo adottare un modello in cui siamo in controllo di tutte le variabili e possiamo dare una decisione istantanea”. Questo ci ha portato improvvisamente a dire “dobbiamo costruire una banca”, che è un diverso livello. La differenza è questa, che molte startup, a partire da un tech team di qualche persona, fai un piccolo prototipo, cominci ad avere clienti e poi aggiungi altri pezzi. Nel momento in cui si unisce un land, il tech team non basta, perché devi avere le credenziali, devi sapere un po’ di rischio di credito, devi avere fondi, come dici tu, e non stiamo parlando di centinaia, ma di milioni di euro, perché già 2 o 3 mutui già ti fanno un milione; e devi avere anche un minimo di competenze per essere credibile dal punto di vista regolamentare. Improvvisamente il progetto era grosso e a dei costi di entrata molto più alti. Noi abbiamo comunque affrontato la cosa in modo incrementale e pensando sempre a questo come un percorso critico. Questa è diventata la mia ossessione, ogni volta che facciamo qualcosa, penso what’s the critical path, perché dovendo tenere i costi bassi, l’approccio è sempre stato iterativo, di dire “ok, qual è il minimo di competenze che ci servono? Mettiamole in piedi senza costruire una cattedrale nel deserto, però quelle 5 competenze ci devono essere, quindi, andiamo avanti, poi acquisiamo un po’ di clientela, di ricavi, di fondi, mostriamo che lo possiamo fare e poi facciamo un’altra iterazione di ramping up”. Quindi è un tema di identificare cos’è minimo critical e poi fare molte più iterazioni. Ti faccio un esempio: ha avuto molto impatto su come facevamo le assunzioni. Dovevamo avere qualcuno che conoscesse il rischio di credito dal giorno uno, che non è il primo tipico hiring che fai in una Dating App, per esempio. Però, ovviamente, non siamo andati ad assumere il super Senior Manager Director of Credit di Deloitte perché, primo, sarebbe stato un overkill, secondo, sarebbe stato un disastro. Abbiamo assunto qualcuno che avesse un minimo di esperienza e fosse un po’ più giovane, però che potesse portarci al secondo livello. Poi, ovviamente, quando arrivi a quel livello, devi cominciare a ramp up, e la stessa cosa un po’ su tutto, anche sul funding. Andare da Goldman Sachs a chiedere una linea di 500 milioni, non ce l’avrebbero data, quindi abbiamo detto “mettiamo in piedi una linea di 10 all’inizio, con un fondo più piccolo, mostriamo che sappiamo quello che facciamo e poi con questa prova che è come un biglietto da visita, andiamo da Goldman Sachs e diciamo adesso abbiamo fatto 10, magari il prossimo sarà 50 e poi 500”. È un tema di ragionare in maniera incrementale, perché comunque se devi fare una cosa grossa, non necessariamente costruire una cattedrale nel deserto porta al risultato giusto. Fare passetti incrementali aiuta.

Ne abbiamo parlato anche Inès e io in un episodio in cui davamo dei consigli su come iniziare. Nonostante il goal finale fosse enorme, quasi impossibile da immaginare, se tu spezzetti cosa mi serve fare in questo mese per arrivare al prossimo mese, anche come persona umana uno riesce ad andare avanti, se no uno si paralizza da tutto quello che deve fare…perché c’è anche la responsabilità e lo stress sulle spalle. Non penso che tu non abbia avuto nessuna paura in questo percorso, tutti hanno quei dubbi. Poi ci hai raccontato una cosa che ci aveva abbastanza sorprese. Ad oggi avete raccolto £38 milioni di equity facendo vari round di fundraising, ma ci hai raccontato che il tuo profilo…nonostante uno possa pensare a una carriera incredibile, capisce bene quello che ha fatto perché ha fatto anche regulatory affairs in una banca, ha lavorato a stretto contatto con il fintech….insomma avevi sicuramente tantissime credenziali per essere nel ruolo in cui eri, ma non è stato facile raccogliere capitali con il tuo profilo. Ci puoi raccontare perché? Qual è stata la tua esperienza?

Anche per me è stata una sorpresa, perché poi quando esci da questi mondi, pensi che si apriranno tutte le porte, ma non è così, perché poi ogni mondo ha le sue caratteristiche. È stato abbastanza difficile, infatti, il primo battesimo del fuoco è stato proprio il primo round. È stato difficile per tutti, però penso che rispetto alle mie aspettative è stato un po’…e il motivo è stato semplice: era un mix che non va bene nel mondo del fundraising, perché io ero un’ex consulente (non apprezzato per la tipica view nei Venture Capital: il consulente non ha mai fatto niente, quindi non saprà fare execution), zero esperienza startup. Il bias è: questa è una persona corporate, non sa mettere le mani in pasta, assumerà una marea di gente e si metterà a fare il manager. Tra l’altro italiana in un mondo completamente anglosassone, perché io ho fatto tutto negli Stati Uniti…non dico che sia un bias, però sei un po’ una minority, non sei parte del gruppo cool. In più, cercando di fare fundraising nel mondo mutui che nessuno capisce, è molto poco sexy e richiede grossi capitali all’inizio. Quindi il contrario di tutti i principi di una startup. Noi volevamo mettere pochi soldi e vedere subito i risultati, un minimo mutuo sono £200.000 , quindi non riesci a fare quell’interazione veloce che in altre startup potresti avere. C’erano tutti gli ingredienti negativi, c’erano molte avversità. Io, non avendone idea, dicevo “questa è l’occasione del secolo, perché non investite?”. Questo per me è un bene. Spesso nella vita è un bene non sapere troppo, perché tanto ci credi e poi le cose avverranno, però mi sono resa conto che tutte queste componenti hanno reso più difficile l’accesso a un mondo che comunque è difficile di per sé.

Sì, lo diciamo sempre, un tema del podcast è quanto è importante essere un po’ naive prima di entrare nelle cose,  se no non si farebbe nulla, quindi cerchiamo di non svelare troppo. Poi avete raccolto questi £38 milioni, ma state arrivando a breakeven che per una startup, soprattutto fintech, è un milestone molto importante, perché vuol dire che state riuscendo a non dover più continuare a raccogliere capitali per poter sopravvivere. Ci puoi raccontare un po’ come siete arrivati a questo milestone? So che sarà una storia molto complicata, ma se ci sono dei consigli che ti senti di estrapolare…e se avete seguito un tipo di crescita, una strategia particolare per essere più sostenibili nel vostro modello?

Innanzitutto chiariamo che stiamo arrivando…il nostro target è di arrivarci alla fine di quest’anno, quindi più o meno, incrociamo le dita, però non siamo ancora lì. Questo è un obiettivo importante per noi e lo è sempre stato. In termini di come ci siamo arrivati…sicuramente abbiamo accelerato molto il percorso rispetto ad altre startup e, come probabilmente saprete, il dibattito del momento è proprio questo, cioè quanto conta la profittabilità rispetto alla crescita nel mondo startup, perché veniamo da 10 anni in cui contava solo la crescita ad ogni costo e ci si è dimenticati che un’azienda prima o poi deve generare i soldi. In realtà per noi è sempre stato un obiettivo core dall’inizio. Quindi, se dovessi distillare gli step che ci hanno consentito di arrivarci più velocemente degli altri, ne direi due: uno, il fatto che fin dall’inizio…almeno a me era chiarissimo e l’abbiamo messo come centro e obiettivo cruciale per l’azienda, cioè il fatto di avere un business model, il fatto che alla fine dovessimo mettere in piedi un business che fosse sostenibile dal punto di vista economico e che ci fossero fonti di generazione di ricavi. Questo sembra banale, ma non lo è, perché ci sono un sacco di startup che partono dicendo “intanto creiamo gli users e poi vedremo”. Per me, l’idea di avere un prodotto che generasse ricavi e fosse sostenibile già dall’inizio, è stato centrale. Mi ricordo che nelle prime discussioni con i Venture Capital, non capivo perché molti investissero in digital banks che, onestamente, non hanno una fonte di ricavi sostenibile all’inizio, ma la cercano dopo. Fare landing è una cosa buona, perché genera ricavi fin dall’inizio. Avevamo deciso di avere un business model che generava ricavi. La seconda componente, secondo me è, una volta che c’è questa consapevolezza, fare execution e mantenere un po’ la disciplina di seguire quello che è stato deciso, che sembra banale, ma non lo è, perché in un mondo in cui ogni giorno c’erano mille startup che crescevano velocemente con zero ricavi, però avevano molto media coverage…la tentazione è forte, cioè la tentazione di spendere un sacco di marketing per poter crescere più volumi. L’esempio più eclatante per noi è stato il tema del costo di acquisition dei clienti, che è il costo principale per noi. Lì è molto facile spendere troppo e noi non lo abbiamo fatto. Vedevamo alcuni nostri competitor essere presenti dappertutto. I miei figli mi dicevano “perché loro fanno pubblicità e tu non la fai?”, “perché è tosta”, però magari oggi quei competitor non ci sono più. Dall’altro lato, dal punto di vista della disciplina, ugualmente difficile è il tema dei costi fissi. Dal punto di vista dei costi fissi, noi abbiamo sempre cercato, inculcato un tema di essere lean nelle nostre operation…che la gente dovesse essere stretchata; tutte le persone del team che nel fare il loro lavoro…non abbiamo fatto mai troppe assunzioni, nonostante nel momento in cui cresci, la domanda ti viene: dobbiamo assumere 10 nuovi? No, finché la gente non sarà super stretched no, perché la cultura deve essere più che quello che facciamo di più con le risorse che abbiamo…il tema è più di cultura che di costo. Una volta che ti abitui così, poi automaticamente mantieni una base costi abbastanza…

Aggiungerei anche che tutte queste tentazioni di spendere troppo e fare cose superflue sono ancora più forti in un mondo dove i capitali sono abbastanza accessibili. Ora siamo in un momento in cui il VC si sta un po’ asciugando…vediamo tutte le big tech…magari il tavolo da ping pong non ci sarà più nel futuro perché non ci saranno più soldi. Parlando della tua esperienza professionale in questo percorso di costruzione di un’azienda, ci sono stati dei momenti in cui non ti sei sentita all’altezza di quello che stavate costruendo? Hai avuto momenti di forti dubbi o difficoltà, quasi più in un modo personale? Ci sono tanti ostacoli in una startup.

Direi di sì, praticamente sempre. Anche se sembra strano, però per me è stato un percorso nuovo iniziare a fare una startup, quindi, ovviamente, era sconosciuto. Il fatto di non sentirsi all’altezza c’era fin dall’inizio, nel senso che era una cosa un po’ ignota, poi tipicamente, in modo ricorrente, soprattutto all’inizio della startup, tutte queste difficoltà ti fanno pensare “forse sono io”. Penso che forse da citare, oltre a questa continua difficoltà, ci sono dei momenti critici. Per me ci sono stati un paio di momenti che…non so se in ogni startup, però io sono convinta che alla fine in ogni startup c’è sempre uno o due momenti di near-death moments e per noi ci sono stati. Quelli sono momenti di grossa crisi personale, perché dici “ma ce la faremo o non ce la faremo?”. Sono quei momenti in cui per qualche motivo è crollato qualcosa, un deal etc, e ti senti che sei in bilico. Da noi in particolare Covid ha avuto un grosso impatto, perché in Inghilterra si è fermato tutto il mercato nel momento in cui noi stavamo partendo. Abbiamo dovuto fermare tutto per 6 mesi ed è stato molto difficile perché non solo noi, ma anche tante altre aziende, non sapevamo se ci saremmo arrivati alla fine di questo periodo. Un altro momento molto difficile è stato proprio recentemente, all’inizio di quest’anno, perché nel momento in cui sono saliti i tassi, i mutui sono stati influenzati dai tassi…è avvenuto nel mezzo di un funding round che per un po’ si è bloccato. Questi sono momenti di forte di…non proprio crisi aziendale, ma crisi personale, perché ti fa pensare che forse non ce la farai. Adesso, confrontandomi con tante persone e altri founders, forse è molto più diffuso di quello che uno pensa e che più o meno tutti hanno questi momenti di crisi, però se ne parla poco. Invece è importante parlarne, perché se no ci si crea una visione asimmetrica.

Sì, molto distorta. Infatti è molto solitario come percorso perché tutti i founders devono comunque vendere la loro startup. Qualsiasi persona con cui parlano potrebbe essere un potenziale investitore, un potenziale consumatore, quindi la faccia che mettono sempre è quella super positiva “tutto sta andando alla grande”. Poi il giorno dopo vedi che l’azienda ha chiusa (vedi Gorillas, da esserne tappezzata la città, ad azienda venduta allo stesso amount del funding che avevano fatto una volta). Mai giudicare dalle apparenze, perché è molto misleading e, soprattutto, è vero che soprattutto in questi ultimi anni c’è stata una glorification di questi tipi di founders che tiravano su tanti capitali e spendevano come dei matti. Adesso il mondo si sta riequilibrando e, come dicevi tu prima, la profittabilità di quello che uno sta facendo adesso è importante.

È vero, questo è molto importante, quando si leggono cose sui social media da prendere cum grano salis. L’unica cosa che direi in aggiunta è che è importante capire che è un bilanciamento molto delicato, nel senso che da un lato le difficoltà ci sono e bisogna sapere che non è tutto un percorso roseo; dall’altro io mi sono trovata proprio in questo dilemma: come founder, come imprenditore, c’è una componente per cui se tu ci credi e sei positivo, avverrà. Questo tema della self-fulfilling prophecy è vero, c’è della realtà in questo. In inglese si dice “fake it till you make it”, che è una frase un po’ estrema se uno pensa ad alcune startup, ma c’è della verità. Secondo me sta nel trovare del bilanciamento, perché io ho notato che se tu ci credi, instilli una positività nel team, negli investitori, finisce per accadere. Se invece sei più realista del re e pensi a tutte le cose che potrebbero andare male, non accadrà mai.

Invece, parlando di momenti belli, entusiasmanti, se dovessi sceglierne uno, soprattutto se comparato alla carriera che hai avuto prima in corporate?

Diciamo che ce ne sono tanti, se no non lo farei. Fino ad adesso abbiamo sempre parlato di difficoltà, però, in realtà, io penso che, in generale, l’esperienza startup per me è stata la più rewarding che io abbia avuto in vita mia, perché c’è un tema di impact overall. Alla fine, in ogni lavoro che uno fa, devi capire che cosa ti guida. Ogni persona è diversa, ognuno ha i propri valori e non c’è giusto o sbagliato, però c’è chi è più guidato da dove guadagna di più, da dove ha più potere, da dove ha più una posizione di rilevanza; c’è chi è più guidato da temi carrieristici, però c’è anche chi è più guidato da che impatto possa avere. Questo tema dell’impact è rilevante per me e in tutte le esperienze che ho avuto, questa è l’esperienza che ha avuto più di impatto overall.

Quando crei qualcosa di tuo, vai a risolvere un problema, vai a migliorare la vita del consumatore, lo senti ed è un’ottima carica. Lo diciamo anche noi sul podcast quando ci scrivono gli ascoltatori per dirci che la storia di uno dei nostri ospiti li ha motivati a partire, a fare…ci dà sempre un sacco di carica.

Una cosa che ci terrei a dire qua. Per me è stato un momento eccitante da questo punto di vista. Quando parli da una startup, tu pensi sempre di essere piccolino, nessuno ti noterà, chissà mai se arriverai ad essere…per me è stato un momento impressionante quando ho cominciato a vedere che, in realtà, eravamo citati come l’esempio di innovazione da grosse banche. Ti rendi conto in quel momento che tu pensi di star costruendo una cosa piccola, ma in realtà stai veramente cambiando le regole del gioco, ed è una bella soddisfazione.

Quando sei sul deck di qualche banca che presenta i nuovi innovator disruptors del mercato, è sempre un’ottima validazione. Qual è la lezione più importante che hai imparato in tutta la tua strada che hai fatto, il tuo percorso fino ad oggi?

Per me è una delle grossissime lezioni è stata quella di capire che nella vita non c’è giusto o sbagliato, anche dal punto di vista professionale, di carriera, ma c’è quello che va bene per te, che è abbastanza rilevante, quindi devi perseguire quello. Questo richiede una grossissima conoscenza di cosa va bene per te, che ci metti anni forse a…ma oggi penso che sia molto di valore. Io penso ai giovani d’oggi…sei molto bombardato da cos’è è la cosa giusta da fare, sei bombardato dai social media in cui vedi tutti questi esempi di successi e c’è un grossissimo rischio di volerli imitare, senza pensare che forse non è your cup of tea e magari tu stai cercando qualcos’altro. La più grossa lezione che io darei è cercare di capire cosa va bene per te, un’esplorazione, provare varie cose, e perseguire quella, perché così riesci veramente ad essere abbastanza motivato. Una frase che è un po’ connessa a questa…i miei figli fanno sport a livello competitivo, quindi avevano il loro coach di nuoto…hanno fatto questo training per i genitori e ci dicevano “ricordatevi che alla fine ognuno ha le proprie olimpiadi, cioè per ognuno arrivare alle olimpiadi…per una persona può voler dire arrivare primo alle olimpiadi, per un’altra persona può voler dire arrivare alle nazionali, ed è equally worthy”. Queste sono cose che io ripeto molto al team, perché everybody has their olympics e va benissimo, però devi capire quali sono, se no rischi di essere insoddisfatto a vita.

Un consiglio davvero prezioso e utile per tutti, perché è vero che uno si fa totalmente affascinare e abbagliare dalle storie degli altri, vedendo solo l’highlight dell’highlight. Nel podcast cerchiamo di dare profondità e far vedere cosa c’è dietro tutte questi begli articoli di giornale. Potremmo continuare questa conversazione e farti altre milioni di domande, perché è veramente molto interessante, ma siamo arrivati alla fine dell’intervista. Ti volevamo fare una domanda con cui chiudiamo tutte le nostre interviste. In che modo diresti che la tua italianità ha contribuito al tuo successo?

In vari modi. Uno, dal punto di vista di soft skills, nel senso che ho capito, andando in giro per il mondo, che noi italiani siamo abbastanza socievoli, estroversi, aperti alla vita, positivi per natura, e questo apre tante porte. Questo ha aiutato. La seconda cosa è che l’Italia piace a tutti alla fine  quindi è sempre un common ground, quindi quando viaggi per il mondo, poter parlare dei bellissimi posti che abbiamo in Italia, del cibo, accomuna tantissimo. L’Italia, lo ripeto sempre anche ai miei figli, è un tesoro, un paese speciale non replicabile. La qualità della vita in Italia non si può…e ammirato in tutto il mondo, forse a volte dovremmo solo valorizzarlo un po’ di più.

Assolutamente. Grazie mille Francesca di essere venuta qui su Made IT, di averci raccontato così apertamente la tua storia, e anche sentire il tuo punto di vista di come hai affrontato le tue scelte, i tuoi problemi, trovo che sia veramente di grandissima ispirazione, quindi siamo sicure che sarà un’intervista molto apprezzata.

Grazie a voi.

In bocca al lupo per tutto!

Crepi!

Un giorno comprerò casa a Londra con Molo.

Benissimo, grazie.

 

 

 

 

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