Iris Skrami, Co-Founder di Renoon

 

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Questa settimana abbiamo intervistato Iris Skrami, Co-Founder e CEO di Renoon. 

Dai tempi dell'università Iris è attenta al wellbeing e alla sostenibilità. L’industria della moda, dove lavora, è però ricca di sprechi e responsabile del 10% delle emissioni di CO2 a livello mondiale. Sono queste le scintille che innescano il lei il desiderio di creare un suo progetto per valorizzare i prodotti sostenibili. 

Nel 2020, dopo aver lavorato in varie corporate nel mondo della moda, Iris fonda Renoon insieme a 3 soci. La startup, nata come piattaforma per aiutare consumatori a fare scelte più sostenibili, si è poi evoluta focalizzandosi su un modello b2b. Oggi Renoon tramite un SaaS (Software as a Service) dà la possibilità alle aziende di andare sul mercato e comunicare con trasparenza le proprie azioni di sostenibilità. Renoon ha già raccolto 1,2 milioni di euro con partecipazione di  500 Global, un Venture Capital di San Francisco e l'ex CIO di Gucci. 

Grazie al suo impegno come imprenditrice e attivista per il clima, nel 2020 Iris è stata selezionata tra i 70 “pionieri del nuovo mondo” dalla testata Sifted del Financial Times ed è stata inserita nella lista Forbes Under 30 Italia del 2021.

In questo episodio Iris ci racconta le milestone della sua startup, dall'importanza del founding team, ad aneddoti legati al fundraising, fino al pivot del suo business model. La sua storia ci insegna che ogni progetto deve essere sempre pronto ad evolvere, rimanendo però coerente con la missione che ti ha spinto a iniziare l’impresa.

 

Partiamo dagli inizi, ci sono degli aneddoti formativi della tua infanzia, adolescenza o anche delle lezioni che ti hanno trasmesso i tuoi genitori che vorresti condividere con noi e che ci potrebbero dare un po’ di contesto sulla persona che sei adesso?

I miei genitori hanno costruito tutto da zero, nel senso che io sono figlia di mia mamma e di mio papà, che si sono trasferiti dall’Albania in Italia, a Milano, dove sono nata e cresciuta, in realtà più per motivi di lavoro, però si sono costruiti una vita completamente da zero. Questa è stata per me anche una delle cose importanti…mi hanno dato un esempio da seguire, perché mi hanno dimostrato come nella vita puoi sempre costruire qualcosa partendo dal nulla. Nel momento in cui crescevo a Milano, ho avuto un’infanzia abbastanza normale. I miei genitori venivano da un altro paese, ma io e mia sorella siamo cresciute normalmente, con amici, scuola, posti tranquilli. Non ho avuto nulla nella mia infanzia che abbia creato delle situazioni particolari. I miei genitori, venendo da un altro paese, avendo questo mix di culture, insieme mi hanno aperto anche a sapere che le cose si possono anche fare in modi diversi, nel senso che comunque rispetto ai miei amici, le cose si facevano diversamente. Nella mia famiglia avevo sempre due prospettive diverse e questo, probabilmente, mi ha dato un po’ di impronta nel cercare sempre di capire come fare le cose diversamente. Sono sempre stata quel tipo di persona che guarda le cose e pensa “ma perché viene fatto così? E se lo facessimo in un altro modo, quale sarebbe l’output?”

Che bello! Poi comunque più uno ha diverse culture, più ha un bagaglio ricco di prospettive diverse. Invece, una cosa che mi avevi detto che mi era piaciuta molto quando ci siamo sentite la prima volta, è che mi avevi raccontato che tuo padre ti ha sempre cresciuta come spinta da grandi ambizioni, a mettercela tutta. È una cosa bella! Si parla tanto del fatto che le donne hanno meno opportunità…però parte tutto anche da casa, da come ti crescono i tuoi genitori. Se ci potevi raccontare un po’ di quello…mi era piaciuto quando ci eravamo sentite.

È stato molto interessante per me capirlo dopo, sai, quando uno cresce. Il fatto che mio padre desse sempre questa spinta a me e mia sorella nell’imparare tutto, corsi, sport, ma anche extracurriculari. Era sempre molto puntiglioso su alcune cose, ci spronava sempre a prendere i migliori voti a scuola, però anche quando si è trattato di scegliere la nostra carriera, piuttosto che parlarci di quello che sarebbe stato il nostro futuro, non ha mai fatto distinzione su quello che uno potrebbe dire “è una donna, allora possiamo proporre questa spinta, o perché sono ragazze, facciamo vedere loro questo piuttosto che altro”.

Parlando proprio di carriera, quando ti apprestavi a scegliere il tuo percorso post università, avevi già le idee chiare sul fatto che avresti voluto fare l’imprenditrice, che sarebbe stata una strada possibile per te, o non sapevi niente di questo mondo?

No, mai, non ho mai avuto questa idea, perché non avevo un reference point, non avevo mai neanche incontrato, durante il mio percorso, degli esempi. Non sapevo neanche fosse una possibilità. Questo è stato un po’ improntato anche dai miei genitori e da mio padre, nel senso che lui ha sempre proiettato per noi una carriera, anche arrivando ad essere CEO dentro un’azienda, però sempre comunque una carriera aziendale, perché probabilmente era anche quello su cui lui era stato impostato a sua volta. Nella mia famiglia comunque non ho esperienze imprenditoriali, quindi non sapevo proprio fosse una cosa possibile, tant’è che io ho studiato Business e General Administration e quando si è trattato di decidere poi effettivamente dove andare a specializzarmi, ho scelto il marketing, perché ho pensato fosse la branch più creativa, più libera, che ci fosse nella struttura business, non sapendo in realtà che probabilmente entrepreneurship, imprenditoria e innovazione, sarebbero stati uno sbocco che poi mi avrebbe spronato di più. Infatti subito, appena sono entrata nel mondo nel lavoro, sono entrata nell’ambito marketing e ho cambiato subito, perché ho capito che in realtà era solo una piccola parte di quello che mi piaceva fare.

Infatti, partendo dalle tue prime esperienze lavorative, sei andata subito a lavorare nelle big corporates, come tanti di noi, soprattutto di questa generazione, che forse è l’ultima che aspirava alle big corporates. Le cose stanno cambiando anche per i ragazzi adesso. Sei entrata prima nel team marketing di Luxottica, in cui sei rimasta per qualche mese, poi sei andata da Nike, in Olanda, in un team che si occupava di digitalizzare la parte b2b di Nike, e infine da PVH, che è la holding company di Tommy Hilfiger e Calvin Klein, e lavoravi sui negozi del futuro. Cosa ti ha spinta a cambiare lavori così velocemente all’inizio, e cos’hai imparato in queste posizioni che ti hanno poi dato le skills per fondare Renoon?

Appena sono entrata in azienda ero una sorta di spugna che cercava di prendere cose ovunque. È stato molto entusiasmante, perché mi sono ritrovata in un ambiente che mi spronava tantissimo, ero anche un po’ fastidiosa, a solita intern che magari entra e fa mille domande, vuole sapere mille cose. Quello che mi ha spinto a guardare a più cose, è stato il fatto di…in maniera anche molto naturale, non sono stata molto a dire adesso voglio cambiare, voglio cercare...una volta che ero nell’azienda, ero curiosa di sapere cosa c’era di più da scoprire. Mi sono trasferita proprio qua in Olanda, con Nike, perché era il lavoro che…facendo varie esperienze, mi ero posta come obiettivo di esplorare, perché appunto si trattava di innovazione, si trattava di fare scouting in startup, di applicare delle tecnologie innovative dentro un’azienda e questo mi entusiasmava tantissimo. Mi sono accorta che, effettivamente, era qualcosa che faceva per me. Poi è da lì anche il mio interesse per il b2c è nato e poi c’è stata questa opportunità su PVH e da lì mi sono spostata in Tommy Hilfiger e Calvin Klein.

Quello che ti volevamo chiedere è, invece, l’interesse per la sostenibilità quando nasce? Immagino sia nato mentre facevi tutti questi lavori. Cosa ti appassionava del tema? Quando l’hai scoperto? Raccontaci un po’ questa parte che adesso è così importante nella tua vita e nel tuo lavoro.

Sono tornata da un erasmus mentre ero in triennale, e ho detto a mio papà: “vorrei diventare Chief Sustainability Officer di un’azienda”. È stato un percorso che è partito dal domandarmi cos’è che mangiavo, mentre ero in università. Ho iniziato a leggere un po’ di libri, sia dal punto di vista della propria salute…avevo iniziato a fare sport, quindi anche a stare molto di più fuori casa, outdoor, e a curare sempre di più quello che mettevo dentro il mio corpo. Da lì ho iniziato a scoprire sempre più cose legate anche all’aspetto ambientale e etico della scelta delle persone della propria alimentazione. È stato proprio da lì che è partita la scintilla. Di solito per accendere un fuoco servono un po’ più di scintille, ed è stato anche il fatto che proprio quando ero in erasmus, ero un po’ accerchiata da persone…in Germania, in quel momento, andava di moda essere vegetariani. Quindi tutte le persone con cui uscivo erano vegetariane, sono diventata vegetariana anche io e durante un case study c’è stata una parte su The Body Shop, un business americano di una ragazza che l’ha fondato mettendo una grande base, una grande impronta, dal punto di vista di sostenibilità ambientale, ma anche etica, come azienda, e questo mi ha colpito molto. Sì fare azienda e fare un business, ma comunque far sì che con l’azienda si possa creare anche un impatto positivo sul mondo che c’è attorno. Questa cosa mi ha complito tantissimo, mi è interessata moltissimo e mi è rimasto back on mind anche quando sono andata nelle aziende. È stato proprio in Nike che mi sono accorta che quello che facevamo era molto legato alla tematica della sostenibilità, perché cercavamo di bloccare, o ridurre, la quantità di samples che vengono creati nell’aspetto b2b e quello che facevo andava ad utilizzare la tecnologia per evitare questo spreco. È stato lì poi che ho connesso tutto quello che era l’aspetto della sostenibilità, questa passione che avevo, e che avevo più che altro nel mio tempo libero, insieme al mio lavoro. Un’altra parte che in realtà è un elemento che mi sono sempre domandata se è collegato alla mia vita e alla persona che sono, è stato il mio canale di yoga e la mia passione per lo yoga, che è nata nello stesso periodo.

Questa è la cosa interessante, poi adesso ci soffermeremo molto sugli inizi di come è partita poi Renoon. Ci vuole sempre tanto tempo, ma credo che il messaggio sia che le cose non nascono in un giorno. Mi è piaciuto molto come hai detto…ci vogliono tante scintille per accendere un fuoco. Uno ha un interesse nella propria vita privata, poi inizia a pensarci anche nell’ambito professionale, inizia a raccogliere tutti i data points che poi ad un certo punto formano un’idea più grande. Quindi vogliamo rimanere un po’ su questo tema e chiederti quando hai iniziato a formulare i primi pensieri sull’idea che poi un giorno sarebbe stata Renoon, ma non era ancora un business ed era solo alla fase di data points che si uniscono; e se stavi lavorando quando pensavi a un’idea? Quanto ci hai messo a formulare questi pensieri?

In realtà è successo mentre lavoravo da Tommy Hilfiger e Calvin Klein. È successo che stavo cercando un vestito per un party aziendale. Non avendolo trovato nei samples, che di solito sono anche un modo per l’azienda…al posto di sprecare questi vestiti, venderli ai propri dipendenti. Lì non avevo trovato nulla, allora ho detto “e se magari cercassi qualcosa che fosse un po’ più sostenibile rispetto a comprare dai soliti negozi a cui sono abituata?”. E lì mi si è aperto un mondo, perché ho iniziato a capire quanto fosse difficile per un consumatore navigare tutto questo, nel senso che in qualsiasi negozio fisico in cui andavo, non trovavo nessuna indicazione dal punto di vista dell’impatto sostenibile, dei valori, dietro l’azienda o il prodotto che volevo acquistare. Online ho iniziato a cercare ovunque “sustainable black dress”, “what does sustainable” per la parte di moda per quel vestito nero che stavo cercando. Ho visto che non c’era nulla e da lì ho capito che, probabilmente, se io iniziavo ad essere più consapevole delle scelte che stavo facendo dal punto di vista delle scelte di consumo di vestiti…io sono la prima che fino a quel momento compravo fast fashion o qualsiasi brand mi piacesse…non mi sono mai fatta problemi. Quindi ho pensato, se io che sono abbastanza addicted a questi brand, ho il desiderio di cambiare, proprio per le informazioni di sostenibilità e la qualità di quel brand, probabilmente anche altre persone avranno questo desiderio e questo è un problema o un’opportunità per le aziende. Così ho iniziato a guardare anche un po’ in azienda. Poi le cose iniziano ad unirsi, quindi uno riceve questo input da un problema che io ho avuto…poi sono arrivati altri input, per esempio da PVH sono arrivati insights sui consumer e si è iniziato a scoprire che se in 5/10 anni l’azienda non si fosse trasformata in tutto quello che riguarda la sostenibilità e non fosse riuscita a rispecchiare i valori di una nuova generazione di consumatori che tengono a queste tematiche, non sarebbero stati più rilevanti come brand al consumatore. Questa è una cosa che fa andare nel panico più totale aziende come Tommy Hilfiger, Calvin Klein, ma anche tantissime altre, non solo nel mondo della moda, ma tutti i consumer facing, consumer brands. Da lì ho iniziato a parlarne con le persone, che è stata una cosa molto positiva, perché ho sentito anche di altri founder che magari si tengono l’idea tutta per sé all’inizio, con la paura che magari possa sembrare ridicola o che magari qualcuno gliela rubi, come se fosse facile creare un’azienda dall’oggi al domani e rubare un’idea. Probabilmente in Silicon Valley è anche così, ma qui da noi non lo è e in ogni caso un’idea non vale nulla. Proprio con quest’idea che un’idea non vale nulla, ho iniziato anche a capire se altre persone avessero interesse, come l’azienda in cui ero stava iniziando a muoversi in questa direzione, quali fossero le soluzioni. Quindi c’è stato un po’ di interesse, di ricerca, per qualche mese. Poi ho iniziato a capire che…innanzitutto, ho iniziato a fare ragionamenti miei personali sulla mia carriera, su quello che volevo fare. Ho deciso, quindi, di prendermi un periodo sabbatico, in cui ho iniziato a esplorare varie cose, tra cui…capire esattamente anche cos’è una supply chain, entrare in dettaglio di quella che è una factory, perché io stessa, che lavoravo nell’industria, non avevo assolutamente idea di come fosse fatto un capo di jeans, piuttosto che una maglia. Quindi ho iniziato ad essere abbastanza super kicky su quello che potesse riguardare la produzione di un capo di abbigliamento, ma anche tutto quello che riguardava le tecnologie e che cosa le persone, soprattutto in Italia, pensassero della sostenibilità e di questo cambiamento.

Questa parte di ricerca è molto interessante, nel senso che hai individuato un problema personale e poi lo step successivo è riuscire a spendere del tempo a capire “è solo un mio problema?”, parlarne con tante persone, capire come reagiscono, guardare tanti dati, quindi è sicuramente una fase importantissima dell’inizio di una startup, di cui non si parla molto, perché viene un po’ cancellata da tutti i successi che arrivano dopo, però, è molto importante che ci sia questo lavoro prima di iniziare. Ci hai detto che hai preso un periodo sabbatico, quindi un po’ l’opzione safe quando uno ha un buon lavoro a cui tiene…se si lavora in big corporate, può succedere che ci sia l’opzione di prendere un sabbatico con l’idea poi di tornare. Quindi immagino che tu abbia deciso di non tornare da PVH. Perché? Cosa ti ha convinta a lasciare definitivamente il tuo lavoro per iniziare qualcosa di tuo? Poi inizierai qualcos’altro prima di Renoon, ne parliamo subito, ma prima di parlare di quello, c’è stato un momento, una chiacchierata, qualcosa in particolare, che ti ha convinta che avresti voluto lasciare il percorso che hai pensato fosse per te e fare qualcosa di diverso?

In realtà è stato un ragionamento a cui sono arrivata perché è anche forse il mio carattere. Io penso che sia fondamentale raccogliere elementi, ma che questo periodo di research deve essere fatto in maniera seria, proprio per prendere dei rischi calcolati, ma allo stesso tempo anche per mettere un limite in cui una decisione deve essere presa e andare avanti e fare azioni. Questa è una cosa che mi tiene sveglia ogni notte, è una cosa a cui voglio dedicare molto più tempo e quindi ho preso questa decisione e ho deciso di buttarmi. È stato anche un po’ una scelta che è stata dettata da un calcolo che abbiamo fatto con gli altri founder. Eravamo stati accettati dentro un incubatore, quindi avevamo anche un modo più strutturato di prendere questa journey, perché io, come gli altri, non avevo idea di cosa significasse fare una startup, cosa significasse creare un’azienda. Abbiamo deciso di fare una parte più safe, dove eravamo seguiti da altre persone che sapevano come farlo e ci potevano aprire un network. Quello è stato il momento critico, in cui anche con delle persone che ora sono i miei soci, anche se non tutti. Eravamo in 4 inizialmente che abbiamo iniziato con quest’idea, poi in 3 abbiamo deciso di fondare l’azienda. Io, personalmente, ho detto “se ci crediamo, la facciamo e ci buttiamo”.

Quello che ho notato, in generale, è che ci sono tante persone che parlano di cose che vogliono fare, di idee, ma poche riescono a concretizzare. Uno ha un’idea, può testare se gli piace fare quell’idea, se può avere del potenziale, però spesso e volentieri queste idee rimangono nella testa delle persone. La gente non si butta per varie ragioni, però incoraggiamo tutti a buttarsi di più e, come risoluzione del nuovo anno, provare un po’ di cose e vedere cosa sticks. Per tornare a Renoon, ci puoi raccontare chi sono i tuoi co-founders, come vi siete conosciuti? E poi qual è stato il momento in cui vi siete detti che “Renoon è diventato il nostro focus principale, l’idea sta partendo”, cioè c’è stata una milestone, qualcosa che avete raggiunto che validava la vostra idea?

La prima persona con cui ne ho parlato era Gabriele, che è una persona che conosco già dall’università, abbiamo fatto la Cattolica insieme a Milano. Una volta che ero qua ad Amsterdam, ci siamo ritrovati a PVH insieme. È stata una di quelle persone a cui ho raccontato di questo mio problema, subito, perché è una persona che mi ha sempre detto…lui ha sempre voluto fare l’imprenditore e quindi dovevo per forza parlarne con lui. La prima cosa che ho pensato è…dobbiamo anche avere un CTO, perché quella che vogliamo fare, sarà un’azienda tecnologica. Anche lì è successo tutto in maniera naturale. Dentro il mio building, una sera, ero giù e c’era un party e ho conosciuto questa persona che mi ha detto “io faccio back-end development e sono super appassionato di sostenibilità”, e io mi sono girata e gli ho detto “che cosa fai?”. Quindi ho iniziato a parlargli di questa mia, nostra idea, perché già con Gabriele avevamo iniziato a guardarci in giro, e da lì abbiamo iniziato a guardarci sempre di più dentro. C’era anche un’altra persona, sempre della nostra università, che abbiamo inizialmente portato dentro…però il momento in cui per me è stato “voglio dedicare a questa cosa il 100%”, è stato quando siamo entrati dentro l’incubatore, perché comunque richiedeva tempo, focus, per poter impostare alcune cose. Abbiamo subito capito che sarebbe stato fondamentale per noi fare un raise per poter mettere in piedi la prima parte di quello che avevamo in mente e avere enough money per testare alcune cose. Ci siamo messi quella come seconda milestone importante per il nostro CTO. Lui ha lavorato part-time per alcuni mesi iniziali, quindi ha chiesto al suo lavoro di lavorare part-time e poi abbiamo messo quella come milestone per lasciare tutti il lavoro e iniziare a fare questa cosa. Mentre eravamo nell’incubatore, un altro ragazzo…lì eravamo in 3, l’altra persona che ci aiutava un po’, ha deciso di continuare a fare quello che faceva e un’altra persona, invece, che è Piero, ha scoperto quello che stavamo facendo da amici di amici e ha deciso di unirsi a noi. Credo che la cosa fondamentale per me sia stata capire, vedendo anche queste dinamiche di team, che in un certo modo ci conoscevamo tutti, perché anche con Nico, il nostro CTO…lui era il mio vicino di casa, quindi un po’ lo conoscevo, così come Gabriele e Piero. Però abbiamo preso tutti una decisione molto affrettata, nel senso che nessuno di noi aveva mai lavorato insieme e di solito i team di founders sono in 2, massimo in 3, mentre noi siamo in 4, quindi siamo tanti. È stato molto particolare, perché imponendoci una decisione a un certo punto del nostro percorso, eravamo tutti molto motivati nel fare questa cosa. Infatti, ad oggi, siamo ancora tutti insieme e tante volte, quando sento storie di founding teams, di founders, molto spesso il motivo per cui una startup va busted è proprio per il founding team, perché non ci si trova a lavorare insieme, perché qualcuno decide di dire di no…invece il nostro è stato un team che si è costruito quasi naturalmente, ma che poi è rimasto insieme molto coeso, durante tutto questo percorso, che è la cosa probabilmente più bella di tutto il nostro percorso.

Questa, come dicevi tu, è una cosa fondamentale per il successo di una startup e ci vuole anche un elemento di fortuna, soprattutto se uno non ha mai lavorato insieme con quelle 4 persone. Infatti, mi ricordo quando stavo guardando gli acceleratori, che tanti, tipo Y Combinator, che è uno dei più famosi del mondo, voleva vedere un’esperienza, almeno aver lavorato su un progetto con il co-founder attuale, per vedere che ci fosse quel fit insieme. Perché, come diciamo spesso in questo podcast, è una vera relazione fare azienda insieme e, come tutte le relazioni, ci sono quelle che vanno bene e quelle che vanno male. Hai parlato prima del fatto che dovevate fare un raise. Ci puoi raccontare un po’ della parte di fundraising, da chi siete andati, com’è andata, quanto avete tirato su, se hai qualche aneddoto, qualche storia sulla parte di fundraising, per far vedere che non è un processo facile, però ce l’avete fatta?

Sicuramente quando lo fai una volta, poi la seconda è completamente diverso, perché sai già come si fanno le cose in questo campo. Sicuramente la parte di fundraising ha 3 elementi principali: il network, fondamentale; la capacità di organizzare, dal punto di vista di timeline e struttura il proprio fundraising; il contenuto, quindi quello che riesci a creare dal punto di vista di storia. Guardando indietro, non sapendo assolutamente niente di fundraising, di cosa fosse un VC, delle volte dico “wow, you did a really nice job”, perché non avevo assolutamente idea…quello che abbiamo iniziato a fare era capire quali fossero i diversi modi in cui tirare su capitale, quindi, la prima cosa che abbiamo fatto è il solito friends and family. Ad oggi abbiamo tirato su 1,2 milioni, che deriva proprio da friends and family. È stato il primo round piccolissimo che abbiamo fatto con l’incubatore e alcuni mini angels, che erano nostri amici, e poi abbiamo fatto il round di angel. Lì è stato fondamentale creare un network prima, anche creare una storia di traction. Poi abbiamo tirato dentro 500 Global, che è un venture capital da San Francisco, e anche Smart&Start di Invitalia, quindi anche il governo italiano ha investito in Renoon.

Ottimo! Avete dovuto pitchare a tanti VCs, tanti angels, o queste persone che hanno poi investito sono state facili da convincere? È stato un processo relativamente facile? Perché c’è chi deve pitchare a tante persone e si sente dire tante volte di no, e c’è chi, invece, è più fortunato.

Abbiamo parlato, soprattutto in fase iniziale, con pochissimi VC. In realtà, a nostra sorpresa, avevamo anche un po’ di VC che ci approcciavano, però anche sapendo che per noi era molto complesso parlare con loro, perché inizialmente non avevamo nessuna idea di come fosse il processo. Ci siamo comunque appoggiati su advisor, persone che lo avevano fatto in passato, per cui abbiamo deciso di andare immediatamente da angel. Lì, per noi, è stato un processo di mettere vari angel insieme, ed è stato proprio lì…tornando alla tua domanda…del fatto che non è affatto semplice fare il fundraising, anche se quello che si vede alla fine è l’annuncio che esce sul giornale…è stato proprio il primo momento, durante il percorso startup, dove vedi che è proprio un processo di up and down, un percorso emotivo che in azienda non vivi. Ci sono proprio dei giorni in cui mi ricordo, nel nostro primo fundraising, proprio perché per noi era una milestone importantissima, pensavamo quasi di chiudere il giorno dopo e, invece, dei giorni in cui ricevevamo un sì importante da un angel, ed eravamo gasatissimi e riprendevamo tutto in mano.

Invece come avete fatto inizialmente a definire il piano di lavoro tra voi 4 co-founders…poi siete diventati 3, quindi tra voi 3? Ci sono stati dei momenti difficili fuori dall’aspetto di fundraise che avete dovuto affrontare insieme e che avete poi superato?

Inizialmente, quando siamo partiti, essendo io, Gabriele e Nicolò…Nicolò è il nostro CTO, quindi lui si occupa della parte tecnica della piattaforma e del software. Dal punto di vista interno, invece, io sono una persona molto creativa, outgoing e mi piace stare fuori, parlare con le persone, mentre Gabriele è il mio opposto, quindi ci completiamo tantissimo insieme. Abbiamo scoperto questa cosa anche lavorando. Lui è molto analitico, quindi si occupa di controllare tutta la parte di controllo analitico di qualsiasi cosa, lui è molto forte su quello. Quindi il modo in cui ci siamo suddivisi è stato anche ibrido andando avanti. Poi si è aggiunto anche Piero nel team. È stata un’ottima aggiunta al team, perché ci eravamo accorti che ci serviva anche qualcuno per spingere molto sulla parte commerciale. La nostra idea era diversa da quella che l’azienda è oggi…inizialmente ci serviva raggiungere brand il più velocemente possibile. Ci serviva una persona che fosse molto outgoing ancora più di me e Piero è una di quelle persone che può vedere ice agli eschimesi, quindi è stato veramente un’ottima addition, più che altro proprio anche come personalità. Non si tratta solo di skills, ma anche del modo in cui l’altra persona lavora e di personalità. Io sono una persona molto confronting. Mi sono resa conto di questa cosa proprio lavorando con loro, mentre i miei co-founder hanno un approccio molto diverso nel modo in cui guardano le cose, per cui insieme ci completiamo a 360 gradi. Questo è stato qualcosa che abbiamo scoperto proprio lavorando insieme.

Hai appena menzionato il fatto che l’azienda sta cambiando ed è cambiata molto rispetto all’idea iniziale, e state facendo un pivot per avere un servizio b2b adesso. Com’è cambiata l’idea e perché avete pensato e pensate che possa funzionare meglio dell’idea iniziale che era più b2c e quindi era cercare di avere un’app, users che devono downdload l’app e adesso state invece vendendo una metrica…te lo faccio raccontare, però è proprio business, quindi sta cambiando anche tutto nel vostro team.

La cosa fantastica, almeno per me personalmente…perché poi è importantissimo, secondo me, in questi pivot…perché è normalissimo che un’azienda faccia vari pivot, anzi, nei primi periodi della nascita…è che se comunque hai una missione e un obiettivo ben definito, quasi diventano naturali. La nostra mission fin dall’inizio è stata molto chiara: noi stavamo creando il front-end della responsabilità e della trasparenza verso i consumatori, e dare la possibilità ai consumatori di avere chiarezza sull’impatto dei prodotti che comprano. Questo rimane fisso. Il modo in cui lo facciamo è dovuto cambiare per una serie di motivi che riguardano quello che poi l’azienda è dentro, il prodotto e le risposte che hai dal mercato. Uno, ovviamente, parte con un’idea…poi anche qualcosa che è difficile prevedere, come le dinamiche macro esterne. Quando noi abbiamo iniziato con l’idea iniziale consumer, fare il fundraising è stato comunque difficile, perché per noi, come founder, era la prima volta che facevamo una cosa del genere, e quindi si trattava di costruire tutto da zero, ma era comunque una dinamica diversa. Ora, in base alle dinamiche macro-economiche che stanno succedendo attorno a te, devi prenderle in considerazione. In questo momento, se come founder vuoi raccogliere tot, devi essere disposto anche a dare un certo tipo di equity, che magari comunque ti blocca per poter raggiungere il prossimo step. Quindi ci sono anche queste considerazioni da fare proprio nella crescita del modello di business e anche di andare poi a raggiungere la tua mission finale, la visione che hai del tuo prodotto e della tua azienda, in un modo che possa incastrarsi bene e farsi spazio e dominare il mercato per quello che il mercato è in quel momento. Ci siamo accorti che, da una parte avevamo le aziende che iniziavano a chiederci questo tipo di servizio, non perché sapevano quello che volevano, ma perché ne avevano bisogno; e dall’altra parte abbiamo iniziato a vedere che portare i consumatori dentro la nostra app, quanto era scalabile per noi e quanto riuscivamo noi stessi a portarlo avanti? Abbiamo iniziato a vedere che ci sarebbero serviti tantissimi investimenti dal punto di vista di marketing con un modello di business che ancora per noi non era al 100% valido. Inoltre non riuscivamo a incastrarlo bene in quella che era la nostra mission. E anche perché se avessimo dovuto ottimizzare il nostro modello di business, e quindi rendere l’azienda finanziariamente forte, avremmo dovuto sacrificare una parte della nostra mission, nel senso che con il modello iniziale che avevamo pensato di transaction (il nostro era un search engine con prodotti che rispettavano certi livelli di sostenibilità) dovevamo ottimizzare sul numero di prodotti venduti. A quel punto abbiamo iniziato a vedere che c’erano sempre gli stessi prodotti che vendevano, la stessa tipologia di brand, e quindi ci siamo chiesti: ma se domani un brand non rispecchia più questi criteri, questo lavoro un retailer non lo può fare, quindi non puoi risolvere questo problema collegando la crescita del tuo business con una transazione. Questa è una parte di alcuni ragionamenti che abbiamo fatto internamente, ma anche esternamente, con il mercato. Poi dall’altra parte anche le dinamiche dell’industria stessa…noi adesso siamo specializzati, abbiamo iniziato con tutta quella che è l’industria della moda e dell’abbigliamento. Qui stanno arrivando tantissime regulation, quindi delle imposizioni dal punto di vista governativo, a livello europeo, ma anche country per country, che obbligheranno poi le aziende a fare questi passi. Il nostro ragionamento è stato: non vogliamo neanche perderci questa come opportunità e vogliamo far in modo che l’azienda possa crescere nel migliore modo possibile. Il motivo per cui pensiamo che questo nostro pivot funzionerà e perché stiamo vedendo che sta funzionando molto bene. Sono un paio di mesi che abbiamo fatto questo switch, quindi è più semplice iniziare a capirlo. Inizialmente abbiamo pensato che fosse la cosa giusta proprio perché abbiamo collezionato varie informazioni, vari dati, e ci siamo accorti che sarebbe stata la cosa giusta da fare, anche dal punto di vista di team interno e di quello che ci avrebbe permesso di fare lo step successivo in maniera molto rapida.

Il succo della tua risposta è quello che hai detto quando hai iniziato a raccontarci questo percorso e cioè che è molto naturale nella vita di una startup cambiare e fare pivot e, soprattutto, è molto importante adattarsi, sia a quello che succede internamente che al tipo di market enviroment che c’è intorno, cioè quanto è facile raccogliere i soldi e poi, se cambia qualcosa nell’industria, riuscire a seguire dei trend e non essere fissi su un’idea che poi magari è proprio lì che si muove. Se uno si riesce ad adattare, a cambiare, soprattutto nei primi anni di vita, è abbastanza centrale al successo di una startup. Non bisogna avere troppa paura dei cambiamenti ed è normale iniziare con un’idea e finire con una che è completamente diversa. Invece ci hai raccontato che agli inizi, quando cercavate quei primi soldi dagli angel, c’erano questi up and down pazzeschi in cui pensi che la tua idea non funzioni, e poi pensi di essere in cima al mondo, e poi di nuovo “no, non avremo mai i soldi, non riusciremo mai ad andare avanti”…superata quella fase iniziale di vita o morte, ci sono stati altri momenti particolarmente difficili? Altri challenge che magari state ancora combattendo adesso, di cui vuoi parlare?

Quello che penso è che in una tipologia di azienda che nasce come nascono le startup, la challenge è quella di gestire la propria cassa, quindi far sì di avere abbastanza soldi per testare e poter fare il prossimo step. Tutto quello che è a metà, è molto più bearable di tutta la parte di fundraising. Lato mio e lato team…perché poi vedo che, essendo comunque un team che è molto close insieme…nel senso che, anche se siamo un team remote, lavoriamo molto insieme, anche con le persone che abbiamo assunto nel tempo. Io sono molto affected nel momento in cui siamo fuori a parlare con investitori e questi sono i momenti più complessi all’interno dell’azienda, e lo è stato sicuramente anche questa parte di pivot. Più che altro perché è stata più una decisione…e poi è difficile tornare indietro e quindi come founder, e soprattutto avendo un team (adesso non siamo più solo noi 4), è stato prendere una decisione che va ad impattare su altre persone e che puoi prendere solo tu. È stato questo il momento emotivamente più complesso, come founder e personalmente.

Invece i momenti o il momento più emozionante?

Sicuramente per me, personalmentem è stata l’entrata di un VC americano, perché era proprio un obiettivo fondamentale che avevo, ed è quasi arrivato nel momento in cui ormai non speravo più. È successo anche in maniera molto casuale, è successo tramite Clubhouse. Io sono dentro vari gruppi di founder, ovviamente. È una cosa fondamentale da fare quando hai un’azienda. Per caso con questo gruppo ci siamo incontrati su Clubhouse per fare il nostro solito meeting…sai, quando fai fundraising… a questi meeting partecipo sempre quando sono in fundraising, perché ci si fa un sacco di intro a vicenda con i vari VC. Sono entrata dentro questo Clubhouse, tra l’altro era un venerdì sera, gli altri erano in US, UK, io dovevo andare ad una cena a cui non sono andata, a casa di una persona, perché tra l’altro eravamo in lockdown, e lì per caso è entrata una persona che poi era la moglie della persona che gestisce 500 Global in Asia, e da lì ho avuto un contatto interno ed è successo quasi naturalmente. Sono quelle cose che dici “ma se io quella sera fossi andata da un’altra parte, non sarebbe successo”, e fa strano, perché sono quei defining moments che ti lasciano…perché davvero se fossi andata a quella cena invece che entrare su Clubhouse…

Sarebbe stata la cena che ti sarebbe costata di più nella storia della tua vita…sono quei momenti, come dici, defining ed emozionanti, quando succedono. Facendo un pivot della nostra chiacchierata, cosa pensi che faccia di te una buona imprenditrice e, secondo te, chiunque può essere un imprenditore? So che tu non sei partita con alcun modello e non sapevi neanche che fosse una strada e quindi pensi che possa essere una strada per tutti?

Domanda molto complessa, nel senso che, proprio perché non ho mai pensato di essere imprenditrice io stessa, è complesso dire se una persona può esserlo o no. Direi di no. Non per una questione per cui una persona può o non può, ma più che altro perché penso che ci siano dei tratti caratteriali che se non hai, probabilmente è molto difficile. Non è la strada per tutti. Questo non significa che is wrong che qualcuno possa esserlo, ma semplicemente come esistono dei maratoneti ed esistono delle persone che riescono a fare le gare di velocità, credo che essere imprenditore sia un po’ più una maratona. Quindi se hai il fisico più da velocista, conviene fare altre cose, invece se la maratona è quello che ti senti di fare, allora è per te. Credo sia il paragone più corretto che mi viene in mente, perché esemplifica anche com’è il modo di arrivare al risultato finale. Poi ci sono momenti, durante il percorso, di grandi successi, dove, anche come founder, sei sotto i riflettori, tutti i giornali ti chiamano, vogliono fare interviste con te; momenti in cui devi costruire e costruire, momenti in cui ti sembra che domani chiuderai l’azienda, momenti in cui sei on top of the world, ma alla fine si tratta di una maratona, qualsiasi cosa tu stia facendo.

Invece, a livello di lezioni che hai imparato in questi ultimi due anni, qual è la più grande che ti senti di condividere?

Quando fai una startup, alla fine, hai pitch lato investors, lato cliente, dall’altra parte devi costruire un team e sei dentro questo loop di portare le persone verso il tuo percorso, ma dall’altra parte c’è tutto un mondo che sta andando in una direzione completamente opposta a quella a cui tu vuoi far sì che il mondo vada, perché stai portando avanti un’innovazione. Quindi la quantità di no che ricevi e di porte socchiuse, se non sbattute in faccia, sono tantissime, però la cosa che ho imparato è che non è mai definitivo, nel senso che puoi sempre ribussare e alla fine qualcuno verrà ad aprire. Questo a noi è successo con brand, investors, che poi in un modo o nell’altro tornano perché vogliono riaprire la conversazione.

Bellissima questa risposta, mi ha fatto pensare al libro che sto leggendo in questo momento (che poi ovviamente inseriremo nelle short notes) che si chiama Never Split the Difference. Negotiating as if Your Life Depend on It, che dice che, in realtà, il no è la cosa migliore che puoi ricevere in una negoziazione, perché il no apre al fatto che puoi andare a convincerli e di trasformare quel no in un sì, mentre tante volte dei sì sono cose che non si concretizzano perché non hai avuto il modo di spiegare bene, o chiarificare alcuni dubbi o cercare di cambiare un mindset. Consiglio a tutti questo libro, ci sono delle cose molto interessanti e riprende alcune cose che stavi dicendo tu. Non bisogna farsi abbattere anche perché ci sono più no che sì in questo mondo. Siamo arrivati alla fine della nostra intervista, quindi concludiamo con la nostra solita domanda: in che modo la tua italianità ti ha aiutato nel tuo percorso?

Quando dici che sei italiano, soprattutto all’estero, è come dire “siamo già amici”. Soprattutto in ambito startup ci sono tanti italiani e noi italiani siamo veramente bravi in quello che facciamo…ho incontrato tantissimi italiani veramente fantastici nel costruire business ed essere etrepreneur…ma soprattutto in ottica di quello che noi stiamo facendo in questo momento, quindi la parte di sostenibilità, la parte di moda, è diverso perché in Italia parte un po’ tutto da qua, parte da un heritage, da una tradizione, ma anche sostenibilità. Alcune cose sono inerenti ai nostri valori, come anche il buon gusto e la moda, e questo sicuramente ha aiutato me come founder e poi mixandola con quella che è la tua esperienza fuori. Noi abbiamo una parte fondamentale di tecnologia e noi italiani non siamo conosciuti all’estero per la tecnologia, però siamo bravi in quello che facciamo e lo stiamo dimostrando fuori.

Bello finire su questa nota positiva. Il successo che vi meritate con Renoon.

Grazie a voi, ho super apprezzato questo invito, grazie.

 

 

 

 

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