I benefici di lanciare una startup stealth mode con Gian Maria Gramondi e Luca Cartechini, Co-Founders di Shop Circle
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Gian Maria nasce a Cuneo, Luca viene dal Molise ma entrambi crescono in famiglie industriose e avvezze al business.
Le loro strade si incrociano per la prima volta al master della ESCP Business School e tra i due nasce subito un forte legame. Ma è ancora presto per costruire qualcosa insieme.
Gian Maria fa la sua esperienza nella consulenza con Deloitte e in un big tech come Amazon. Luca lavora in una banca di investimenti e in un fondo di venture capital.
Entrambi però sono insoddisfatti e capiscono che questi non sono i percorsi professionali adatti a loro.
Nel 2021 arriva finalmente il momento giusto per unire le loro competenze ed esperienze, totalmente complementari, e fondare la loro impresa.
Gian Maria e Luca lanciano Shop Circle in stealth mode, con l’idea di creare un aggregatore di applicazioni per l’e-commerce, un business model capital intensive ma altamente scalabile.
Lo scetticismo iniziale degli investitori e le difficoltà non mancano, ma in meno di due anni la coppia di founder raccoglie oltre 65 milioni di dollari, tra debito ed equity, e fa crescere un team di 95 persone in tutto il mondo.
Adesso tra i loro clienti ci sono oltre 50 mila aziende, tra le quali colossi come Patagonia, Nespresso e Colgate che si affidano ai tool di Shop Circle per le loro vendite online.
Come dice Gian Maria, fare impresa non è uno sprint ma una maratona. Un percorso lungo e complesso da condividere con le persone giuste. Da come si spalleggiano nella nostra intervista non abbiamo dubbi che entrambi abbiano trovato nell’altro l’anima gemella per affrontare questa sfida.
Gian Maria, allora, iniziamo da te. Ci sono due punti, in particolare sui tuoi early days, di cui vogliamo parlare ed esplorare un po’. Sei nato a Cuneo, da genitori imprenditori che hanno fondato, e poi anche venduto, una catena di coffee shops a Londra. Venendo da una famiglia di imprenditori, ti volevamo chiedere se hai sempre saputo che quella sarebbe stata la tua strada e cosa hai imparato da loro?
È una bella domanda. Lato mio è stato un percorso, cioè non sono nato con l'idea di diventare imprenditore, di diventare founder. Un percorso che è iniziato certamente all'università, avendo avuto l'opportunità comunque di essere esposto anche a vari corsi di entrepreneurship e aver avuto l’opportunità di parlare con alcuni imprenditori. E poi c'è stato, ovviamente, l'esperienza successiva, di cui probabilmente poi andremo a parlare, di consulenza, prima in Amazon, che mi ha fatto capire che la strada dell'imprenditoria poteva essere quella per me più adatta, anche vedendo l'esempio di mio padre. Come hai citato, è stato coinvolto in un paio di progetti imprenditoriali, uno dei quali, appunto, quello di questa catena di coffee shops a Londra. Quindi è stato un percorso che ha portato a questa esperienza. Cosa ho imparato da loro? Direi che, prettamente, il rischio calcolato, del prendere un rischio calcolato, perché è un po’ anche quello che io e Luca abbiamo fatto all'inizio. È fondamentale sapersi buttare, e quindi decidere di, in un certo qual modo, nel nostro caso, lasciare comunque professioni ben retribuite, stabili; ma allo stesso tempo questo rischio è sempre stato basato e preso dopo una serie di analisi e di valutazioni fatte in maniera anche analitica. Questo è stato sicuramente la principale lezione che ho appreso da mio padre.
Invece, il secondo punto della tua esperienza che ci interessava molto e che volevamo esplorare un po’ di più è quella del teatro classico, Facevi parte di una compagnia teatrale, e a un certo punto hai anche dovuto scegliere se andare all'università o continuare con la scuola di teatro. Ci puoi raccontare di questa tua esperienza e di questo tuo amore per il teatro? Che skills hai imparato che ti porti ancora dietro e come mai poi hai deciso di scegliere di andare all'università?
Effettivamente il teatro è qualcosa che è molto distante, o almeno si può pensare che sia distante, nonostante non lo sia. Però è stata una delle mie prime passioni e più lunghe passioni. Ho iniziato a fare teatro da bambino, da piccolissimo. Prima che leggessi, mia madre mi ha lanciato e mi ha obbligato ad andare a un corso di teatro, perché ero un bambino abbastanza attivo, che parlava molto, e mia mamma voleva sedare un po’ questa mia voglia di parlare e di essere iperattivo, tramite il teatro. In parte, forse, ce l'ha fatta, però poi ho continuato durante tutto il percorso di crescita. Anche durante il liceo ho fatto parte di varie compagnie teatrali, anche al di fuori di Cuneo (Reggio Emilia, ecc.). Il teatro è stato per me una vera lezione di vita, onestamente, e ci sono una serie di lezioni che cerco di portare anche nella mia day-to-day work, quindi nell’imprenditoria. La prima è sicuramente che il teatro è un recitare, richiede molta dedizione e disciplina. Questo sicuramente è un elemento che anche un imprenditore, ovviamente, deve avere. Il secondo, secondo me…ovviamente prima di salire su un palco, qualunque attore ha grande adrenalina e quindi è come catalizzare questa adrenalina, questa ansia o comunque preoccupazione, in un qualcosa di positivo, che rende quello che stai facendo migliore. Questo sicuramente è anche qualcosa che è applicabile al mondo della start up, di founder. E l'ultimo elemento, ovviamente, è quello del public speaking, quindi parlare di fronte a differenti stakeholders. In quel caso era gente che veniva a vedere a teatro e ora magari possono essere investitori o altri soggetti, anche altri colleghi. Queste sono state sicuramente le skills di cui ho fatto più tesoro per la mia esperienza imprenditoriale dopo.
Un tip, allora, che puoi condividere per trasformare proprio quell'ansia di quando uno sta per andare a fare un public speaking e parlare davanti a una audience, quale sarebbe? Una piccola cosa che tu fai che puoi condividere.
È abbastanza training autogeno e ovunque, prima di salire, in quel caso, su un palco, prepararsi. La preparazione, secondo me, è quello che permette di affrontare qualunque tipo di speech in maniera più rilassata. Anche qui, il teatro, la preparazione, in quel caso c’è da sapere il copione o ci può essere la preparazione di una presentazione…
Invece, Luca, parliamo dei tuoi early days: tu sei cresciuto in un piccolo paese in Molise, tuo padre era a capo della produzione di una fabbrica locale, e tua madre capo commerciale di un giornale locale. Ci racconti un po’ di cosa hai imparato dai tuoi genitori professionalmente e non, e che applichi adesso nella tua vita in Shop Circle?
Anche sulla parte di provenienza geografica…effettivamente per me…guarda, darò una risposta un po’ controversa. Il fatto di venire da un paese con tessuto imprenditoriale e commerciale non altamente sviluppato, penso sia stato abbastanza un vantaggio dal punto di vista professionale, perché poi ti porta a dovertela cavare da solo per tutto. Io non ho mai praticamente studiato la lingua inglese in una school prima di farlo all'università, quindi l’ho dovuto fare in maniera autodidatta, né tantomeno sono andato a studiare in America, o in UK. La stessa cosa poi anche per iniziare il percorso imprenditoriale e dapprima lavorativo. I miei genitori, effettivamente, essendo sempre impiegati, non mi hanno potuto dare tantissimo da quel punto di vista, però ho imparato tantissime cose da loro. Poi man mano, con gli anni, maturi e ti accorgi di assomigliare tanto ai tuoi genitori e prenderne pregi e anche difetti. Dal punto di vista dei pregi, mio papà lavora in questa azienda farmaceutica da tanti anni a Termoli, in Molise, però è anche una persona estremamente analitica, quindi fa parte della dell'associazione Mensa, che è un'associazione selettiva a livello di quoziente intellettivo, in Italia, ed era anche un chimico abbastanza di rilievo soprattutto nella parte superiore/inizio dell'università. È arrivato terzo alle olimpiadi di chimica mondiali. Quindi mi ha dato tantissimo dal punto di vista di parte analitica, che applico tuttora e ho applicato per la prima fase della mia carriera, e anche proprio a livello di hard working, quindi l’essere consistente e lavorare duro over the years, nonostante non facesse comunque un lavoro imprenditoriale. Mentre mia madre è una grande venditrice, lei riesce a vendere qualsiasi cosa e lo fa per dei giornali locali, regionali e interregionali, però, secondo me, gli stessi principi di vendita vengono applicati sia sull'articolo di giornale o il banner pubblicitario che su un round da 5/10 milioni. La parte psicologica dietro è più o meno la stessa. Quindi queste sono le cose che ho preso dai miei genitori, poi c’è anche una infinita lista di difetti con cui Gian Maria deve convivere giornalmente, però questo era quello che volevo dire.
Arriviamo infatti al vostro incontro, perché poi i vostri percorsi si sono incontrati prima, e poi vi siete ritrovati. Siete andati entrambi, dopo il liceo, a studiare Economia a Roma e poi vi siete conosciuti nel primo giorno, se non sbaglio, del vostro master a ESCP, che sarà importante per entrambi nel definire i vostri percorsi. Quindi volevamo chiedere…ci piace sempre scoprire un po’ questo momento dell'incontro dei co-founder e se è una scintilla come quella dell’amore a prima vista con un partner, quindi domanda a bruciapelo: Luca, cosa hai pensato appena hai conosciuto Gian?
Ancora prima, ci siamo conosciuti il giorno di selezione. Sai, queste Business School fanno dei giorni di selezione, in cui vai lì e fai la prova di inglese, fai la prova dell'SQL, quindi ci siamo conosciuti qualche mese prima dell'inizio del master e poi ci siamo ri-conosciuti in maniera più approfondita il primo giorno del master. Quindi da subito…secondo me, poi le storie romantiche, o troppo romanzate, non sono mai troppo vere, però per noi è stato effettivamente così, cioè ci siamo conosciuti il primo giorno e poi siamo dapprima diventati migliori amici o comunque compagni di classe durante quei due anni che abbiamo fatto, (il primo anno a Londra, il secondo a Parigi) e poi siamo rimasti in contatto, anche con il papà di Gian che è stata una figura importante per il nostro lancio, a livello di incoraggiamento. E quindi abbiamo quest'idea di aver preso dei percorsi abbastanza paralleli, che però un giorno magari si sarebbero incontrati. Gian viene più dalla parte operativa e io da quella finanziaria, che è poi quello che facciamo da Shop Circle. Quindi poi non è che il primo giorno avevamo proprio in mente “vogliamo fare qualcosa insieme”, ma man mano che ci siamo conosciuti, io sapevo che, se avessi fatto qualcosa un giorno, la persona giusta sarebbe stata Gian, per una serie di complementarietà di skills e anche per una serie di vedersi con un partner a lungo termine. Lo dico anche ai miei ragazzi, a cui insegno imprenditoria e VC in università. È proprio un rapporto quasi matrimoniale, però con la differenza che nel rapporto matrimoniale lavori 10 ore e poi tua moglie la vedi solo quattro ore la sera, mentre il rapporto lavorativo, se ci sei anche amico, praticamente condividi il 90% del tuo tempo. Quindi se lo fai…io vedo che il 60% delle aziende che scoppiano, sono quasi sempre per un motivo di conflittualità tra i founder.
Gianmaria…quali sono state le tue impressioni? Hai capito anche tu subito che Luca sarebbe potuto essere un buon Yin del tuo Yang, in termini di complementarità?
Sì, anche qui senza evitare di aprire il libro Cuore, però sicuramente avevo in mente, l’avevo capito che ci poteva essere un’evoluzione in questa direzione. Luca ha già citato alcuni elementi, ma dal lato mio ho sempre avuto una stima che si è consolidata nel tempo nei suoi confronti, sotto vari punti di vista (la sua etica del lavoro, la sua costanza, ovviamente le sue capacità), e quindi questo ha fatto sì che, appunto, è stato praticamente naturale incontrarci anche nell’esperienza imprenditoriale come co-founders. Quindi non è stata: ci troviamo in un garage random, iniziamo a lanciare Shop Circle, ma è stato comunque un percorso che anche da prima andava in quella direzione.
Infatti ci sono un po’ di passi prima di arrivare a Shop Circle. Luca, dopo ESCP, tu sei andato a lavorare da Jefferies che è un'importante banca di investimento; mentre Gian Maria, anche tu hai seguito un percorso abbastanza classico post Business School, decidendo di andare a lavorare da Deloitte, poi andrai da Amazon, però il primo passo è stato comunque Deloitte. Luca ti volevamo chiedere, visto che oggi, in realtà, come hai accennato, sei allo ESCP, dove insegni imprenditoria e anche un po’ provi a spronare i ragazzi a non seguire per forza il percorso classico (banca, consulenza), ma magari buttarsi nel tech, nelle scale-up da subito. Quindi ti volevo chiedere perché e che argomenti usi per convincere i tuoi studenti? O perché pensi che sia un percorso che si possa fare anche quasi da subito?
Oggi era l'ultima classe della del semestre, dove un po’ tutti i ragazzi, dopo tutte le 6 lezioni, presentano la loro idea di start up, che è la parte più interessante e la parte anche che mi motiva più a farlo, cioè vedere questi ragazzi che poi magari possono avere il loro contributo nell'economia reale. Di base c'è quello che hai detto tu, cioè che effettivamente il mondo accademico attuale, ma anche quello meno accademico, cioè quello delle Business School, come l’ESCP, piuttosto che la Bocconi, la LBS, sono molto concentrate su figure accademiche, che scrivono paper non-stop, oppure figure che magari vengono dall'ambiente banking o consulenze, come lo ero anch'io. Per carità, poi Il mondo di imprenditoria applica tanti concetti anche da corporates world. Certo, però, fare start up è effettivamente molto diverso rispetto a fare il consulente da Mckinsey, e quindi molto spesso i professori che insegnano questa materia vengono più da quel tipo di mondo lì, cioè quindi consulenti di aziende che hanno già fatto lo scale-up, piuttosto che aver fatto aziende loro dall'inizio. Poi, effettivamente, le problematiche sono completamente diverse. Le iniziali sono quelle di raccogliere il primo capitale, di dover pagare gli stipendi dei primi employees, convincerli a venire quando tu non hai altro più del deck. Quindi l'obiettivo è quello di avere sempre più gente che poi entra a far parte di questo ambiente lavorativo, nell'ambito tech. Se guardiamo negli ultimi vent'anni, un buon 80% delle aziende che hanno raggiunto da zero alla valutazione di unicorn, sono nel settore tech. Poi creano molta welth, ricchezza, anche per il paese da cui vengono. Basta pensare all’America in confronto all’Italia o la Germania, la Francia. In questi paesi abbiamo perso tutto il percorso degli ultimi 20/25 anni, dove non sono state create aziende che hanno scalato tantissimo come quelle della California, ad esempio. Quindi l'obiettivo, la vision, quella ad ampio termine, è quella di permettere un po’ a tutti di considerare anche l'inizio di una carriera nel mondo tech, o di fare una start up loro, o magari farla in un secondo momento, perché è possibile farlo per tutti, soprattutto se uno non lo fa in maniera autofinanziata dai genitori, come abbiamo fatto io e Gian, quindi raccogliendo capitale esterno. Non c'è un certo criterio da raggiungere, 5/6/7 anni di esperienza, come si può far credere. Quindi l'obiettivo è un po’ quello, cioè spronare questi studenti a provarci e poi comunque, se lo fai a 23, 24 anni, hai una vita davanti per rialzarti e provare a fare altre cose, anche perché non hai nessuna commitment dal punto di vista familiare, quindi se non lo fai a quell'età, poi magari è difficile farlo dopo tanti anni. Ad oggi i ragazzi apprezzano molto il fatto che sia una persona quasi della loro età, che è andata attraverso un percorso imprenditoriale e che glielo spiega, piuttosto che il consulente di McKinsey, che sono abituati a sentire già tante volte.
L’hai detto anche adesso, ce l'avevi detto quando ci siamo conosciuti, che avevi un po’ tu, anche personalmente, l'idea che dovevi fare alcuni step e acquisire alcune skill per poi poter fare l'imprenditore, che sicuramente aiuta. Ora parleremo dei vostri percorsi, che vi hanno portato poi ad avere l'idea e la voglia di fondare Shop Circle, però non è per forza così. Siete d'accordo con questo statement?
Sì, sono assolutamente d’accordo. Io cerco di spiegare un po’ tutti gli errori che ho fatto negli ultimi 7 anni, per permettere a loro di non farli, senza doverci sbattere la testa. Per esempio, se uno vuole lanciare una start up, condensare tutto il materiale che ti serve per avere un'idea sul cominciare una start up, piuttosto che doversi andare a fare le ricerche online. Quindi sono assolutamente d'accordo, non c'è bisogno di fare quello che abbiamo fatto io e Gian. Aiuta ancora un po’ in Europa, soprattutto se non sei un developer, un engineer, però c'è gente che l'ha fatto subito dopo la business school.
Parliamo un po’ dei vostri percorsi. Gian Maria, l'abbiamo detto, dopo Deloitte, sei andato a lavorare…insomma non ti è piaciuto per niente il tuo anno da Deloitte. Eri in Lussemburgo, hai deciso di andare a lavorare da Amazon, ti sei trasferito a Londra per il tuo lavoro. Cosa hai visto da Amazon che ti ha dato voglia di fondare Shop Circle? Che siano, appunto, trend nell'e-commerce, immagino, ma anche a livello personale, non voler lavorare per un'azienda, voler fare una cosa tua…insomma cosa ti frullava in testa in quegli anni da Amazon?
Amazon, ovviamente, per me è stato il tuffo nel mondo dell'e-commerce, quindi l’opportunità che mi è stata data, è stata quella, appunto, di vedere l’e-commerce sotto diverse sfaccettature. L'e-commerce dal lato marketing, dall'advertising, dal lato supply chain, dal lato brand, quindi dal lato consumer goods. Lavorando, essendo esposto a questi grandi player P&G, SC Johnson, John West, e a come questi player crescevano, supportarli nella crescita all'interno della piattaforma. Quindi è stato fondamentale perché mi ha dato una competenza di base sul mondo dell'e-commerce. Chiaramente mi ha anche aperto, tra virgolette, gli orizzonti su quello che l'e-commerce può diventare, poteva diventare ed effettivamente sta diventando, e quello che potenzialmente anche diventerà. Il percorso in Amazon quindi è stato estremamente positivo, mi ha dato l'opportunità (ritorno al punto di cui discutevamo prima) di vedere com’è una grande organizzazione strutturata, ma allo stesso modo, ho anche avuto la fortuna di far parte di un team relativamente piccolo e nuovo nel mondo Amazon, perché io sono andato nel launch team di Amazon Fresh nel Regno Unito, e quindi era effettivamente una start up con una struttura, ma all'interno di un'organizzazione enorme. Questo è stato interessante anche poi dal punto di vista di come organizzare teams e struttura per poi Shop Circle. Quello che però effettivamente poi mi ha dato la spinta a intraprendere l’esperienza imprenditoriale, è stata quella di quello che non mi piaceva, come dicevi Camilla, quindi quello che per me è stato un po’ il breaker, è stato l'elemento della politica. Questo, secondo me, è un trend comune all'interno di qualunque grande organizzazione, dove c'è molta politica, quindi politica applicata per salire di grado, di livello, per imporre la tua, o comunque suggerire, portare avanti la tua causa rispetto a quella di altri. E questa politica, secondo me, alla lunga, almeno per me (ci sono altri altre persone che, invece, riescono a performare estremamente bene) era un po’ defatigante, in un certo qual modo, e che è un po’ l'approccio opposto, invece, di quello che poi io e Luca abbiamo costruito in Shop Circle, quindi una no politics. Quello che conta, ovviamente, è l'output e la qualità dell'output, la velocità, ma senza esserci questa sovrastruttura politica, per cui pochi e più senior, può dire la sua e quindi conta di più dell'altro, o c’è necessità prima di fare tutta una serie di operazioni politiche per mettere insieme team. Ma, ripeto, vince l'idea vincente. Vince, in particolare, l'execution vincente e questo è uno degli elementi, secondo me, più importanti.
Luca, tu invece sei andato a lavorare in un fondo di VC dopo Jefferies, quindi hai visto la parte start up, un po’ il lato investitore, quindi stessa domanda a te: cosa hai visto in quel mondo VC che ti ha aiutato a fondare Shop Circle, ma che ti ha dato anche la voglia di lasciare quel mondo e iniziare la tua impresa?
Secondo me, un'esperienza in VC mi sentirei di consigliarla di più di un'esperienza in banking e in consulting, per fare poi start up e magari raccogliere capitale tu stesso. Questo perché? Perché comunque sei dall'altra parte del tavolo, quindi capisci come ragiona un VC, quali sono le domande a cui tiene, cioè, quali sono i punti, ad esempio il team, il total addressable market, il prodotto, l'execution, quali idee effettivamente possono raccogliere da venture capital oppure no. E, dall'altra parte, sei anche esposto ad un numero infinito, perché nel mio caso era seed stage, quindi eravamo davvero molto selettivi, parlavi con imprenditori di ogni industry, di ogni genere, un po’ in tutta Europa, quindi ascolti costantemente pitch, quindi persone che cercano di raccogliere capitali da te, e impari anche molto. Secondo me, la parte di apprendimento del del VC, la curva è molto alta all'inizio e poi un po’ si appiattisce con il tempo, però davvero capisci quali sono le cose che funzionano in un pitch e quali sono quelle che non funzionano. Poi vedi che è molto incoraggiante, che c'è anche tantissima gente della nostra età. Quindi io e Gian, quando abbiamo lanciato l'azienda, avevamo 28 anni ed effettivamente vedevi persone che lo facevano già da prima, che non necessariamente dovevano passare attraverso quel percorso di cui parlavamo prima, quindi passare per banking, Amazon, Google, ecc. Quindi quello ci ha dato tantissima ispirazione e, soprattutto, il discorso di capire prima cosa poteva essere interessante per il mercato degli investitori di venture capital. Quindi sì, è stata una parte fondamentale, anche perché poi, una volta che abbiamo iniziato a fare fundraising, non partivamo da zero, ma sapevamo già quali erano i fondi che potevano essere interessanti per noi e come dovevamo fare il pitching e come impostare tutto il round. Penso sia stata un'esperienza molto formativa, nonostante solo di due anni.
Sì, sicuramente ti dà un vantaggio sapere cosa vogliono i VC, cosa vogliono sentirsi dire, per quando poi vai a bussare alla loro porta. Arriviamo a Shop Circle. Ci potete raccontare un po’ meglio come nasce l'idea e, soprattutto, che trend di mercato avevate visto che confermavano che questa fosse l'idea giusta?
Siamo abituati, di solito, a farli agli investitori, a rispondere più o meno a domande simili. Allora, il trend che abbiamo visto è stato quello della proliferazione di software che un po’ tutti, lo vedo io con Shop Circle, ma immagino anche voi, con i vostri lavori, o anche con la gestione del podcast… mentre in media, magari 5 anni fa si utilizzavano 2/3 prodotti software, io vi porto l'esempio dei nostri clienti. Ad esempio Patagonia, 3/4 anni fa utilizzava pochissime apps, adesso utilizzano una trentina di apps, quindi siamo un operatore di e-commerce tools, quindi l’obiettivo a lungo termine è quello di diventare il Microsoft del settore e-commerce, quindi dare a questi brand che vendono online, tutto ciò di cui loro hanno bisogno da un punto di vista di prodotto e tecnologico, per operare con i loro brand online. Ci sono tantissime piccole e medie imprese, anche tanti brand grandi, come quelli di cui vi parlavo prima, Patagonia, ma abbiamo anche tra i nostri clienti Nespresso, Colgate, Playboy, Moscot, quindi brand molto conosciuti, che vendono su Shopify. Il problema che hanno è che non vogliono più avere a che fare con 30 differenti punti di contatto, vogliono avere una soluzione uniformata che abbia delle sinergie di prodotto, ma anche di costo, ed è quello che facciamo da Shop Circle, quindi cerchiamo di offrire quanti più prodotti possibili a questi clienti. Ad esempio, in maniera più concreta, noi abbiamo delle soluzioni che gestiscono tutta la parte di spedizione, di gestione del magazzino, gestione dell'inventario, di selezione del prodotto, un po’ tutto ciò di cui ha bisogno. E come per Microsoft ha molto senso offrire Microsoft Office tutto insieme, con Word, PowerPoint, Excel, noi cerchiamo di fare la stessa cosa dal lato e-commerce. Poi Gian aveva esperienza tangibile nel settore, lavorando tutti i giorni con questi brand, e quindi vedeva la complessità del prodotto, sia a livello tecnologico, che anche a livello operativo. Shopify è un ecosistema meraviglioso, con due milioni e mezzo di di brand che vendono in tutto il mondo in questo ecosistema di 8000 app, tra cui ci sono già 5 app con la valutazione di unicorno, e poi ci sono tutta una serie di persone che si sono finanziate da sole, developers che sono molto bravi a sviluppare il prodotto, ma poi fanno fatica a scalarlo ed è qui che entra in gioco Shop Circle. Abbiamo tratto anche un po’ di ispirazione dal trend dei brand aggregator, cioè aziende che fanno qualcosa di simile, quindi comprano e operano altri business, ma nel mondo brand, mentre noi lo facciamo da un punto di vista prettamente tecnologico, quindi di software.
Devo dire che è geniale l'idea, perché io ho un brand e sono su shopify e ho 10/12 app per tutto (recensioni, store locator), quindi capisco assolutamente. Ogni volta che c'è un problema devo parlare con dei costumer service molto diversi che operano a orari diversi, perché sono in tutto il mondo, e quindi hanno tutti i fusi diversi, quindi sarei già una customer per voi, anche se non sono Patagonia. Spero un giorno di arrivare a quei livelli.
Devi utilizzare le nostre app. Quante ne hai di Shop Circle app?
Eh sai che stavo stavo guardando e mi sa che non ho le vostre app, infatti devo guardare meglio, perché ero andata all'inizio, prima di conoscervi.
La svolta è inserire il codice Shop Circle 20 per ottenere 20% di discount. Però, a parte gli scherzi, noi gestiamo molto anche la parte comunicativa a livello di content, per far sì che l'offerta sia uniformata, nel senso che ci siano magari delle offerte ad installare più prodotti insieme piuttosto che il prodotto stand alone perché, come dicevi tu, anche con un business di relative piccole dimensioni, i bisogni sono molteplici. La forza dell'ecosistema di Shopify è effettivamente quella delle app.
Assolutamente sì. Poi sono necessarie per operare su Shopify, per potenziare il sito e fare tante cose. Quando avete deciso di creare Shop Circle, e avete identificato questo gap sul mercato, avete avuto dei dubbi che avete dovuto sconfiggere prima di decidere di buttarvi? O appena avete messo insieme questa idea, vi siete buttati subito, eravate molto gasati?
Più che dubbi, abbiamo voluto cercare conferme dal mercato. Questo, come Luca citava, è uno degli elementi importanti in fase di pitch iniziale. Noi avevamo dei numeri che ci supportavano sotto questo punto di vista, però effettivamente poi volevamo capire nella realtà…il nostro business ha questa componente acquisitiva molto importante, in cui noi andiamo a fare innanzitutto dell'acquisizione di queste apps, quindi la prima domanda che ci siamo posti è: tutto sembra, on paper, estremamente interessante e molto cool, ma poi effettivamente ci sono dei player, ci sono degli app developer che vogliono vendere queste queste apps? Questo è stato il punto di partenza e l'approccio è stato estremamente analitico, cioè quello che noi abbiamo fatto, banalmente, è stato “ok, che abbiamo creato una fake email address, ci siamo presi una lista di potenziali app developers, li abbiamo spammati non con i nostri nomi, ovviamente, ma tramite, appunto, un’email falsa, e poi da lì ci siamo resi conto che c'era un mercato per questo, perché avevamo ricevuto tutta una serie di risposte di interessamenti. Abbiamo iniziato anche a parlare con alcuni di queste app developer e ci siamo resi conto che, dal punto di vista di mercato, c'era questa opportunità, c'erano dei developer interessati a entrare, potenzialmente, a far parte di questo, chiamalo aggregatore, chiamalo catalizzatore di differenti app. Quindi sì, ripeto, non era un dubbio, perché avevamo tutta una serie di input, sia interni sia esterni. Ad esempio, a Roma, eravamo già in contatto con quello che poi è diventato il nostro CTO, Stefano, che arrivava direttamente da Shopify, altri advisor che avevano venduto delle apps ad altri player. Però volevamo poi effettivamente toccare con mano se questo era vero, e ce ne siamo resi conto che era vero e poi da lì abbiamo deciso di lanciare, di dedicarci full time a questa iniziativa.
Diciamo che il business model di Shop Circle è capital intensive, proprio perché dovete fare queste acquisizioni, dovete crescere queste apps, però, allo stesso tempo, è anche estremamente scalabile perché queste apps poi possono essere utilizzate in tutto il mondo. Come avete approcciato il primissimo round di fundraising? Avete ricevuto tanti no, o gli investor con cui avete parlato fin da subito hanno visto il potenziale ed è stato facile tirare su il capitale?
Interessante, perché ne parlavo con uno studente proprio mezz'ora fa, che mi chiedeva “quanti no avete sentito?”. Perché c'è un po’ questo concetto di glorificare tutto quello che si fa, però, effettivamente, io di start up che pitchano a 20 investitori e 10 magari gli dicono di sì, ne conosco davvero poche, quindi abbiamo sentito tanti no. Noi siamo riusciti a farlo in maniera molto rapida la prima volta, però non ci prendiamo tutti i meriti. Il mercato era anche estremamente favorevole, specialmente nel settore in cui poi abbiamo lanciato Shop Circle, cioè il settore e-commerce. C’era l’e-commerce che è schizzata come tassi di crescita nel 2020-2021 per via del Covid, quindi tutti gli store fisici erano chiusi, e quello che ci ha aiutato molto a livello iniziale, perché comunque gli investitori, è vero che hanno una visione di lungo termine, ma tutto ciò che era e-commerce, SAS, software, in quel periodo, tirava più di altro. Quindi l'abbiamo fatto in maniera molto strutturata e selettiva. Però c'è stato tanto lavoro prima di iniziare a pitchare, quindi di selezionare investitori più idonei al nostro processo di fundraising. In quel caso erano angel investor, che avevano già investito nella stessa industry, quindi nello stesso settore, e poi chiedere, laddove era possibile, delle introduzioni, magari tramite mail dei contatti che avevo in VC, tramite Gian dei contatti lavorativi. Quindi abbiamo chiesto delle introduzioni e molto spesso abbiamo anche scritto noi direttamente alle persone su LinkedIn, o per e-mail. Sai, ci sono tutta una serie di tools che ti danno a disposizione queste informazioni oggi. Consiglio molto Crunchbase, magari per capire…c'è anche una parte free trial che dà accesso a tutti gli investitori che hanno investito nella tua industry, e poi abbiamo utilizzato LinkedIn. Quindi abbiamo ricevuto tante rejection, nonostante il mercato fosse ideale, però poi, facendolo in maniera strutturata, l’abbiamo fatto bene, l'idea era giusta nel momento giusto, siamo riusciti a farlo in 4/5 settimane dall'inizio alla fine, ma 4/5 settimane davvero intense in cui facevamo 12/14 pitch al giorno. Quindi, per metterlo in termini percentuali, penso che l’80% degli investitori a cui abbiamo presentato l'idea di Shop Circle nel primissimo round, hanno detto di no. Poi una buona parte di questi si sono pentiti, ma è un'altra storia.
Sì esatto, quando uno riceve un no, la cosa a cui penso sempre io è “one day you’ll regret that no you said”.
Questo è l’approccio.
Esatto, esatto. Per le persone che hanno detto no quindi…perché è sempre interessante, visto che comunque avete tirato su tanti capitali molto rapidamente. Per le persone che guardano solo gli articoli di giornale, può sembrare pazzesco che abbiate ricevuto un sì subito, dal primo pitch che avete fatto. Quindi è anche interessante sapere che anche voi ne avete ricevuti tanti di no. E la ragione principale per la quale era un pass per questi VC, cioè, c'era una ragione che usciva fuori spesso?
Io magari ne dico alcune e poi Gian mi può completare. Però nella primissima fase iniziale era la mancanza di esperienza imprenditoriale da parte nostra. C'è ancora questo concetto, purtroppo in Europa, soprattutto per persone un po’ più in là. Magari hanno fatto 20/25/30 anni in corporate e vogliono qualcuno che l'abbia già fatto, che abbia almeno 10 anni di esperienza, quindi all'inizio noi non eravamo nemmeno circondati da un senior team troppo experienced. Poi si unito a noi Robin, che il nostro CFO, che viene da 15 anni di esperienza nel mondo degli investimenti; Stefano, che viene da Shopify, Ticketmaster, che sono anche più in là di noi con gli anni di esperienza. Però in fase iniziale eravamo effettivamente solo io e Gian, quindi era più un discorso “questi ragazzi hanno sei anni di esperienza, ma magari non hanno mai fatto impresa insieme”, che ci sta come un feedback. Poi l'altro discorso era magari legato al modello, che molti non capiscono, dove c'è questa sorta di acquisizione e poi andare ad operare queste aziende una volta dopo averle acquisite. Molti investitori sono abituati al modello, monocromatico, mono-prodotto, in cui tu lanci un prodotto e poi sviluppi quello. Queste sono le due motivazioni che mi vengono in mente. Gian hai altro da aggiungere? No, principalmente è quello. Secondo me quello che è importante (e poi ovviamente più si va avanti e più questo è un discorso interessante), nel ricevere questi feedback, è innanzitutto avere una sorta di separazione, di distaccamento, perché se ognuno va a prendere tutti i feedback che sente sulle spalle, praticamente è una montagna che viene giù; e anche ricordarsi che il 99% delle persone con cui parli, ne sanno 100 volte meno di te rispetto al business, però allo stesso tempo anche assorbire questi feedback e farli propri, se si ritengono opportuni. Poi per il successivo round di investimento, per le decisioni strategiche che si vanno prendere…ripeto, ovviamente non saranno mai gli investitori che vanno a gestire le aziende, però magari possono portare comunque delle prospettive differenti che inizialmente non avevi pensato. Questo non è necessariamente il caso del primissimo round, ma più si va avanti, più un feedback, avendo a che fare con investitori più sofisticati, il livello delle conversazioni cambia. Questo è verissimo. Me lo chiedeva anche un…perché abbiamo fatto questa fase di pitch, in cui io davo feedback ai pitch degli studenti, e loro mi dicevano “dobbiamo ascoltare tutti i pitch o tutti i tuoi feedback e metterli in pratica, oppure no?”. Io dicevo “assolutamente no, perché voi ragazzi ne sapete molto di più. Io sento il pitch per la prima volta. Poi molto spesso gli investitori hanno forti opinioni, però se tu vuoi accontentare tutti, non riesci più a gestire il tuo business, anche perché il VC, o l'investitore, di natura, deve dire di no tante volte. Ogni volta che dice di no, deve trovare una giustificazione per farlo, quindi molto spesso è la prima idea che gli viene in testa. Poi, ovvio, come dice Gian, c'è anche la possibilità di integrare questi feedback quando sono ricorrenti, cioè quando ritorna lo stesso feedback 6/7/8 volte, allora dici “magari gli investitori hanno ragione ed è lì poi che fai dei piccoli pivot, aggiusti il modello per muoversi in maniera diversa.
Questo è un tema molto interessante nel mondo imprenditoria. Il fatto che comunque sei un imprenditore con una nuova idea, che vuole disrupt, quindi cambiare come sono le cose. Quindi capire quando sono un genio e sto disrupting la cosa giusta e quindi non devo ascoltare i feedback, perché non capiscono quello che voglio fare o, aspetta un secondo, forse se lo sento 10 volte, è tempo di aggiustare l'idea. Quindi diciamo che la skill dell'imprenditore è capire quali feedback sono giusti e quali invece lasciare perdere perché altrimenti poi uno finisce a fare le stesse cose che fanno tutti. Quindi è un balance interessante. Invece c’è un'altra cosa di Shop Circle interessante, di cui non abbiamo ancora mai parlato in nessun podcast, che è quest'idea che avete deciso di rimanere in stealth mode per (quasi) il primo anno di vita di Shop Circle. Ci potete spiegare cosa vuol dire essere in stealth mode e perché lo avete fatto e come vi ha aiutato?
Iniziare in “stealth” vuol dire semplicemente lanciare l’iniziativa imprenditoriale nascosta quindi under the radar, senza alcun tipo di PR, marketing esterno. Ritengo, e sono sicuro che Luca è d'accordo, che questa sia stata una delle decisioni migliori che abbiamo preso per Shop Circle, per vari motivi. La decisione, secondo me, che gli imprenditori giovani di start up devono prendere, se approcciare la nuova iniziativa in stealth o no, non è in base solamente a un punto di vista, ma tenendo in considerazione alcuni elementi. Il primo, per noi, era quello della competizione. Luca ha citato prima questo trend che abbiamo visto, che è quello di Amazon e dei brands aggregators, quindi questi aggregatori di brand. E da subito ci siamo resi conto che sono passati da zero operatori a 100 aggregatori in un anno, quindi per un mercato, anche come quello di quasi due anni fa, estremamente attivo, in particolare di copy cuts, evitare che gli occhi esterni fossero su di noi, ci ha a permesso di costruire under the radar. Con questo mi ricollego al secondo punto, la costruzione under the radar è interessante perché è quella che permette sia i founder, sia ai membri del team iniziale, di essere estremamente focus. Essere focus e non farsi distrarre da tutte quelle che sono le esternalità che possono impattare la tua avventura imprenditoriale nei primi mesi, che sono tendenzialmente i make it or break it months. Quindi essere focus sul prodotto, sull'esecuzione, senza avere da rispondere a domande di potenziali giornalisti, o interessi esterni, o qualunque tipo di sollecitazione che si riceve dal mondo esterno una volta che hai aperto la tua iniziativa al mondo esterno. Quindi focus, quindi ovviamente competizione, e il terzo elemento che, anche secondo me, nonostante sia estremamente complicato assumere i primi employee quando sei in stealth, non hai un brand (in questo caso eravamo due italiani che vivono a Londra con background interessanti, ma non all’esperienza numero 10 da imprenditori), allo stesso tempo, quindi, lo rende più complicato e magari possiamo discutere di questo, ma rende il founding team molto più coeso e riesce anche ad attrarre altri talenti, perché ovviamente c'è l'idea di stealth start up raised da American investor, che stanno creando qualcosa di estremamente cool, innovativo, under the radar, quindi c'è anche molto storytelling all'interno del team che, secondo me, rende il founding team molto allineato sugli obiettivi e coeso. Questi sono i miei tre punti. Luca, hai qualcosa da aggiungere?
Il mio lavoro è nel mondo del PR, dei media, della corporate communication. Avete deciso di uscire da stealth, annunciando un grande round di fundraising, quindi c'è anche un po’ questa extra fomo che si crea quando esci da stealth e magari riesci a fare un ingresso più interessante nel mondo della stampa, che poi aiuta a creare un po’ di buzz intorno all'azienda. Quindi aggiungerei anche quello, da un punto di vista di PR, che aiuta molto.
Quello assolutamente. Purtroppo l'industria VC, l'industria start up è dominata dalle grandi cifre, dai grandi numeri, quindi a volte se fai un annuncio dicendo “ho lanciato una start up ieri, raccogliendo 200.000€”, magari non ottieni lo stesso interesse, anche dal punto di vista delle assunzioni. Ad unirti in una start up che ha raccolto tanto capitale, ti dà anche una sorta di sicurezza e dici, “sì, è vero che sto prendendo il rischio di unirmi a una start up, ma almeno è una start up ben capitalizzata, quindi aiuta anche dal punto di vista di employer branding, quindi come datore di lavoro.
Infatti, parlando di employer branding, la cosa impressionante di Shop Circle, la ripetiamo qua perché forse non è uscito ancora dalla nostra chiacchierata, è il fatto che avete ingranato veramente velocemente. Poi questo è solo un dato fundraising che vuol dire molto e poco, lo diciamo spesso sul podcast, però in meno di due anni avete tirato su 65 milioni di dollari tra debito equity e, soprattutto, siete andati da voi 2 a un team di 95 persone, quindi una crescita veramente esponenziale anche data dal fatto che acquisite team esistenti, quindi si cresce molto velocemente. Come avete creato il vostro brand, employer brand Shop Circle? Come avete cresciuto il team e, secondo voi, qual è l'aspetto più importante per creare un team che funziona, coeso, che segue voi due e, nonostante tutto, sia andato così velocemente?
Prendo la prima parte, poi magari Gian la puoi approfondire. Noi siamo abbastanza ossessionati da questo punto di vista, perché abbiamo speso il 50% dei primi 6/12 mesi a fare interview. Magari poi come dici tu, molti sono venuti tramite acquisizione. Un buon 40%, quindi circa 35 persone di quelle 95 sono arrivate tramite acquisizione, però è anche vero che abbiamo assunto 45/50 persone in maniera diretta in meno di un anno, perché poi effettivamente dal primo grande round. Quindi anche lì un gioco di volumi, come a livello di fundraising, cioè non puoi sperare di fare 10 interview e portare dentro 10 persone, ma dapprima c'è proprio un discorso di identificazione del candidato, con la difficoltà aggiuntiva di essere in stealth mode. Quindi questo è venuto prima che noi facessimo public release con tutti i dati sul movimento di capitale, da chi avevamo raccolto. Effettivamente quella parte lì è molto simile alla parte di raccoglimento in cui non devi convincere un investitore, ma devi convincere la persona che vuoi assumere ad unirsi a Shop Circle e perché dovrebbe farlo. Anche lì, ovviamente, adesso sono un po’ cambiate le cose, vuol dire che non dobbiamo spendere l’intervista con il candidato, il colloquio di lavoro, a spiegare perché devono venire da Shop Circle, ma è un po’ il contrario, però di base è un percorso molto lungo e molto frustrante. Anche lì, in fase iniziale, abbiamo ricevuto tanti no, tante persone che non si fidavano del nostro percorso, magari non credevano a me e Gian che raccontavamo “abbiamo raccolto 65 milioni”. Ci è successo un po’ di volte che ce lo dicevano: “ma perché non lo vedo online? Perché non lo vedo scritto da nessuna parte?”. Quindi quello crea delle complessità, però di base, come funziona tutto? Io direi che ad oggi abbiamo una cultura molto buona. C'è stata solo una persona in due anni e se n'è andata per problemi di visto, perché voleva trasferirsi in un altro a paese e quindi va molto bene. Una volta raggiunti i 30-40 dipendenti, una mossa che abbiamo fatto e che e ci ha cambiato un po’ tutto, a livello di cultura, in meglio, è stato portare una persona che lo facesse da tanti anni, quindi abbiamo Michelle, che è la nostra Head of HR, che l'ha fatto per organizzazioni molto più grandi ed è stato un game changer, perché nonostante per me e Gian la cultura e i valori dell'azienda, che abbiamo ben delineati dall'inizio, sia importantissimo, a livello di agenda, comunque non avevamo il tempo di farlo in maniera molto professionale, quindi portare una persona prima piuttosto che dopo penso che sia una cosa fondamentale, e per noi adesso è tangibile. Tutte le iniziative a livello di cultura e di valori aziendali, e come si mettono in pratica questi valori, sono guidate da Michelle che lo ha fatto per 20-25 anni. Quindi un consiglio che darei a dei funder, è di non sottovalutare quella parte è e poi metterla in pratica solo quando raggiungi i 100-150 dipendenti, perché comunque dopo un po’ viene fuori. Il costo di assumere delle persone talentuose che poi se ne vanno perché c'è una cultura molto scarsa è altissimo, anche perché di solito inizialmente ti affidi a dei recruiter, a degli head hunter che sono anche molto costosi.
L’abbiamo detto, sono 1 anno e 8 mesi che siete alla guida di Shop Circle, immagino 1 anno e 8 mesi pazzi, di tanto lavoro e notti in ufficio. Se guardate a questo percorso iniziale, anche se siete cresciuti così velocemente, cosa vi emoziona di più di quello che avete creato e che state creando?
Io dal lato mio, poi lascio a Luca ovviamente, sarò probabilmente banale, ma da founder quello che mi emoziona sempre di più è la prospettiva di crescita futura di Shop Circle, è quello che da oggi e nei prossimi anni. Questo è quello che ovviamente mi emoziona. Guardo indietro perché è importante guardare a quello che è stato costruito, “take a step back”, come dico sempre, e riconoscerlo, ma quello che mi anima sempre molto di più è pensare a Shop Circle fra un anno, due anni, tre anni, dove potremmo arrivare. Questo resta quello che mi emoziona di più. Luca? La parte mia è più o meno simile, però direi, per aggiungere anche il discorso di fare del bene per tante persone, perché comunque come dicevi tu, avere 95 persone, poi vuol dire che ci sono 95 famiglie, e creare anche del valore per i nostri clienti. Nel nostro caso, in tutto ciò che facciamo, cerchiamo di mantenere, laddove possibile, i nostri clienti in mente. In questo caso i brand che vendono online e che molto spesso non sono i casi che vi dicevamo prima (Patagonia, Nespresso), molto spesso sono piccoli brand come quello di Inès, che magari non hanno un CTO e quindi hanno bisogno di attingere a delle risorse esterne. Quindi cerchiamo di essere un po’ il capo tecnologico di queste piccole aziende, ad aiutarle a competere anche con i grandi brand. E quindi vedere tante storie di successo di piccoli brand, che poi magari hanno un impatto fortissimo dalle nostre app, e che questo magari li aiuta nella parte di business quotidiana, è estremamente soddisfacente, perché poi ogni app va a risolvere un problema specifico. Per esempio adesso si è chiuso il Black Friday che in US, anche in UK, ma un po’ in tutta tutto il mondo è il periodo clou per un brand e-commerce. I volumi di Shopify aumentano tantissimo e anche i nostri in quel periodo lì, in quel weekend dal Black Friday al Cyber Monday. Le nostre app hanno facilitato circa 120 milioni di fatturato per le aziende che lo utilizzano, quindi vedi effettivamente il tuo impatto reale all'interno dell'economia, all'interno della piccola e media impresa, che è poi il motore ha vero e proprio di qualsiasi economia.
Secondo noi è anche importante parlare dei momenti difficili. L'hai detto un paio di volte, Luca, che a volte si glorifica un po’ tutta la storia, però ovviamente non è tutto rose e fiori e ci sono anche momenti…è un rollercoaster. Però ci sono anche momenti, personalmente, o per l'azienda, molto difficili, quindi vi volevamo chiedere se ci sono stati dei momenti difficili che avete dovuto superare o, in generale, se ci volete parlare un po’ delle difficoltà di fare impresa, a livello personale o a livello di azienda.
Questo è abbastanza personale, quindi forse richiede la risposta sia mia che di Gian. Allora, in primis, come dici tu Camilla, sono più i momenti difficili che quelli belli. Nonostante le cose possano andare benissimo, comunque ci sono sempre complessità legate alla gestione delle persone, del fundraising. Adesso siamo in un periodo economico abbastanza delicato, dove tutti nel mondo dell’investimento, di start up, si aspettano una recessione nel 2023. Poi il mercato sorprende sempre, però questi investitori si stanno preparando in quella direzione, quindi anche il mercato di raccoglimento di capitale è totalmente diverso da quello che era l’anno scorso. Ma i problemi sono molteplici e possono essere anche personali. La cosa più difficile, secondo me, e quello è un vantaggio di farlo a quell'età, è che è davvero tanto intenso a livello di tempo che gli dedichi, soprattutto per noi, perché abbiamo un team in Canada, uno in UK, uno in Australia. C’è un ping su slack, che è il tool che utilizziamo per comunicazione interna, in ogni momento. Se sei una persona che ci tiene al business un po’ troppo, un po’ in maniera morbosa, come per me e Gian, non ti riesci a staccare. Quindi la difficoltà maggiore penso che sia quella di conciliare la vita personale con quella professionale. È per quello che dico che farlo a quest'età secondo me è un vantaggio, perché entrambi, io e Gian, non abbiamo famiglia e figli, altrimenti sarebbe effettivamente molto difficile, anche puramente a livello di orario e di attenzione mentale. Gian? Per me, un unico punto, come Luca ha detto, è impegnativo, ma questo probabilmente in tutti i vostri podcast, gli imprenditori che avete intervistato, vi avranno confermato…però, secondo me, un punto importante che all'inizio per me, e penso anche per Luca, era difficile capire, e chiaramente io e Luca mettiamo il 120% del nostro tempo in questo, ma non si può richiedere la stessa, e non si deve, in un certo qual modo, richiedere la stessa intensità, lo stesso lavoro, lo stesso numero di ore a chi lavora con te, quindi ai tuoi dipendenti. Di questo è importante rendersi conto prima che dopo, perché è normale, è inevitabile. C'è un tema di risk reward, di appetito al rischio e anche proprio di incentivi, che sono chiaramente diversi. Quindi sì, è fondamentale allineare gli incentivi il più possibile, intendo con i propri i dipendenti (che siamo le stock options, che sia qualunque tipo di incentivazione, ma allo stesso quel modo, anche se vai a incentivare nella maniera più interessante e importante possibile, non ci sarà mai un totale allineamento. Questo è importante ricordarselo sempre, perché altrimenti si creano situazioni non piacevoli all'interno dei team.
Molto interessante perché, esatto, poi la gente va in burnout e non ha quello stesso fuoco che l'imprenditore o il founder può avere. Luca, abbiamo accennato prima che hai iniziato ad insegnare imprenditoria all'ESCP. Ti volevamo chiedere, visto che adesso il mondo start up sta diventando sempre più hot e attractive per le persone, è molto più facile anche entrare nel mondo start up? Quindi uno può creare un sito, ha bisogno di molte meno risorse di prima, quindi diciamo che le barriere all'entrata di fare l'imprenditoria si sono abbassate. Ma, secondo te, questo è un percorso che possono fare tutti? Si nasce imprenditori, si può diventare imprenditori, ci sono persone che non dovrebbero proprio farlo? Ci puoi raccontare, dare qualche consiglio alle persone che ascoltano?
Poi, ovviamente, qualsiasi cosa che penso io è sindacabile, però di base penso di no, che non lo possano fare tutti, ma questo non vuol dire che lo possono fare in pochissime persone. Lo possono fare tante più persone di quanto si pensi, soprattutto negli ultimi anni, dove c'è questa variabile venture capital, che fino a vent'anni fa non era nemmeno un'opzione tangibile in Europa. Gli imprenditori europei che avevano raccolto capitale esterno, quindi non autofinanziato dalla famiglia o da altri conoscenti, erano davvero pochi. Ad oggi, quindi, è molto più possibile. C’è in atto questa democratizzazione dell'imprenditoria, soprattutto a livello tecnologico: uno perché c'è più capitale e due, come dicevate voi, perché l'accesso alla creazione di una start up, può essere molto meno costoso. Ad esempio, nel nostro caso c'è Shopify, che ti permette di creare un brand online con un piano da 9$ al mese. Anche costruire un prodotto software e poi utilizzare Amazon web service per averlo online, costa molto di meno di quanto potesse costare vent’anni fa. E quindi ci sono poi due categorie di imprenditori diverse, e non c'è una strada giusta, una strada sbagliata. C'è quella di chi raccoglie i capitali come me e Gian Maria, che eravamo abbastanza obbligati a farlo perché è molto capital intensive, come dicevate voi prima; e poi c'è anche la strada di autofinanziarsi. Autofinanziarsi scegliendo delle industrie, solitamente dove non c'è un costo di capitale molto alto, come quella di software e quella di creazione di un sito. Quindi quella strada lì la possono fare in tante più persone, però se mi chiedete qual è una skill di cui c'è bisogno per essere imprenditore, è quella di prendersi responsabilità e, allo stesso modo, anche essere molto resiliente. Ci sono tante persone che si abbattono, prendono i feedback in maniera personale. Soprattutto per fare un'azienda finanziata da investitori esterni è molto difficile. E poi ci sono anche tante persone che magari non vogliono tantissime responsabilità, sono contentissime di avere un capo e quindi non vogliono magari prendere decisioni per qualcun altro, o un manager, in questo caso, senza avere troppe responsabilità. Ed è anche assolutamente comprensibile, perché poi l'avere tante responsabilità ti porta a pensarci costantemente, che magari non è conciliabile con l'avere una vita sociale da sogni. Quindi la mia risposta è no, non lo possono fare tutti, ma sicuramente tantissime persone possono farlo ad oggi e sono molte più di rispetto a venti anni fa, dove dovevi venire da un certo tipo di famiglia.
Diciamo che bisogna conoscersi, essere abbastanza self aware di come uno è, di che personalità ha. Poi uno può anche provare percorsi e poi aggiustare il tiro. Gian Maria, invece, questi due anni sono passati sicuramente molto velocemente. Qual è per te la lezione più importante che hai imparato?
La riassumo in una frase che cito alle volte. Io credo che fare impresa non sia uno sprint, ma sia una maratona, e questo implica che, appunto, resilienza, costanza, siano due parole chiave. Sarà sempre come hai citato, come hai detto prima, un rollercoaster. Ci saranno dei grandi up e degli immensi down, però fino a quando la traiettoria, e quindi la direzione è positiva e quindi, appunto, questa curva va su-giù su-giù, però ha un trend positivo, ovviamente, worth to it, quindi ne vale la pena. Vale la pena farlo e probabilmente vale la pena anche quando la curva declina, perché ci sono altre failure. Non è una, non può essere considerata alla europea, ma deve essere considerata più all'americana, no? Dal failure si imparano molte cose e, potenzialmente è l’inizio di un qualcosa di più interessante, di successivo. Quindi sì, per me, quello che ho imparato è che fare questo, quello che stiamo facendo, non è uno sprint, ma un qualcosa che richiede tempo. Che poi la maratona può durare 3 anni, 4 anni, 5 anni, una vita intera, però non nulla si realizza in una settimana, in due settimane, in un mese, in sei mesi.
Un quick rapid fire tra voi due: cosa fate per recuperare un po’ di energia? Perché ovviamente è totalizzante, ci si pensa giorno e notte, lavorate su fusi orari diversi, ma se dovete fare una cosa per star bene, per riprendere un po’ di carica, cosa fate?
Facciamo poco sotto quel punto di vista. Però siamo ancora nella fase iniziale, avendo cominciato due anni fa. Ci piace molto andare a cena fuori. Londra è una città che offre ristoranti di ogni natura e io, personalmente, vado in palestra un po’ per rilasciare lo stress ogni tanto. Gian? Io cerco di giocare a tennis e di andare a sciare, quando posso. Questo sono le mie due passioni.
Bene, bene. Bisogna fare anche un po’ di cose che non hanno niente a che vedere con la crescita professionale. Siamo arrivati alla fine della nostra intervista, che concludiamo sempre con la stessa domanda e ovviamente la chiediamo anche a voi. Avremo questa volta, però, due risposte. Vi chiediamo in che modo la vostra italianità ha contribuito al vostro successo o al vostro percorso, come preferite.
Di base, secondo me, l'Italia, soprattutto nel mondo start up, VC, riceve un sacco di critiche un po’ da tutti, dalle persone che se ne vanno all'estero, dagli investitori esteri, dagli investitori italiani, e in parte sono vere. È anche vero che di partenza l'Italia è un paese fantastico…poi ci sono degli stereotipi che secondo me sono veri. In questo caso per noi, o almeno per me, è quello di essere molto più bravi, magari dei paesi nordici, da un punto di vista di negoziazione, che per noi è alla base di tutto ciò che facciamo, perché quando compriamo un'azienda c'è una componente molto forte di negoziazione. Abbiamo appena fatto un'offerta questa mattina, e quando raccogliamo capitale più o meno è la stessa cosa, sia dal punto di vista di debito equity, e poi anche dal punto di vista di gestione del personale. La parte empatica, dove aiuta capire quali possono essere le problematiche di una persona, ed essere più o meno espansivo a livello di sentimenti, mentre delle persone che vengono da US, dal Canada, dalla Germania, di solito tendono a essere un po’ meno empatiche dal punto di vista lavorativo, anche a non creare troppe amicizie nell'ambiente di lavoro, mentre in Italia è lo standard. In Inghilterra, in Germania, nei paesi del Nordics è un po’ meno comune. Quello, secondo me, ci è stato molto utile, avere employees che sono anche amici e con cui condividiamo, laddove è possibile, la vita anche al di fuori. La stessa cosa anche con gli investitori, perché poi è una relazione che nasce, ma che si consolida nel tempo. Lato mio, è simile a quello che diceva Luca, ma è un po’ quello di dare prova che quegli stereotipi degli italiani, in particolare, correlati al mondo del lavoro, non sono veri, portando appunto di fronte la nostra esperienza. Quindi lo stereotipo, molto molto banale, ma ad esempio che gli taliani non sono i most hard workers in Europa, penso che io e Luca dimostriamo l'opposto; oppure che, ad esempio, Luca citava l'elemento più umano, personale. Che quello, ad esempio, non sia quello che serve per fare impresa, penso che stiamo dimostrando un po’ l'opposto, che quindi invece serve. Alla fine le società, le aziende, sono animali sociali, quindi l’elemento umano è alla base. Quindi un po’ ribaltare queste considerazioni, questi stereotipi che molti hanno.
Grazie ragazzi, grazie di essere venuti su Made IT e per averci raccontato la vostra storia. Siete sicuramente una realtà ad altissimo potenziale, quindi siamo molto felici di avervi scoperto e di aver raccontato questa esperienza su Made IT e non vediamo l'ora di vedere, a questo punto, dove arriverete nei prossimi anni, visto quello che avete fatto solo in due anni. Quindi ci rivedremo fra qualche anno su Made IT con qualche enorme milestone, spero.
Grazie mille per averci invitato, Inès e Camilla. Sì, grazie a voi ragazze. Le stesse parole le possiamo dire noi per voi perché comunque siete riuscite a costruire qualcosa di molto grande in pochissimo tempo e, a differenza nostra, senza forme di capitale esterno, quindi continuate su questa strada, perché comunque in Italia ne abbiamo bisogno. C’è un po’ di asimmetria informativa, soprattutto nel mondo dell’imprenditoria tech, quindi congratulazioni a voi.
Grazie mille ragazzi, grazie.