La mentalità di un leader con Stefano Portu, Founder e CEO di ShopFully

 

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Nell’episodio di oggi andiamo ad ascoltare la storia di Stefano Portu, founder e CEO di ShopFully, leader mondiale nel Drive to Store, piattaforma di servizi digitali per favorire lo shopping nei negozi fisici.

Grazie alla sua attitudine diventa uno dei primi membri del team di Buongiorno, la società di Mauro del Rio, fondata a Parma nel 1999 per distribuire contenuti multimediali per operatori telefonici e internet.

La carriera di Stefano decolla insieme al business di Buongiorno che diventa una multinazionale quotata in borsa dopo la fusione con Vitaminic.

Conclusa l’esperienza in Buongiorno, Stefano approda al gruppo editoriale l’Espresso ed è da qui, con l’amico Alessandro Palmieri, che decide di lanciare la sua impresa dopo aver intuito le potenzialità della digitalizzazione per il retail.

Stefano ci racconta la nascita e la crescita di ShopFully che in 10 anni si è trasformata da startup al leader europeo del Drive to Store.

Shopfully, grazie ai suoi servizi come DoveConviene, VolantinoFacile e PromoQui, aiuta 45 milioni di consumatori ogni mese a trovare tutti i prodotti in offerta vicino casa e risparmiare tempo e denaro nello shopping in negozio. 

Adesso Stefano guida un team di oltre 370 persone di quasi 30 nazionalità diverse in 12 Paesi.

In questa puntata abbiamo la fortuna di ascoltare i tantissimi consigli di Stefano che condivide con noi i suoi principi per essere un imprenditore migliore.

Dalle sue parole appassionate si capisce chiaramente che dare valore all’empatia e ai rapporti umani è la chiave fondamentale per avere successo in ogni business.

Ascolta la sua storia.

 

Stefano, ci puoi raccontare un po’ della tua infanzia? E la domanda è: c’è qualcosa che dobbiamo sapere di te, della tua gioventù, della tua famiglia, che ci può aiutare un po’ a capire la tua storia e il tuo percorso? 

Io ho avuto un’infanzia molto felice, in cui ho fatto due esperienze opposte, che poi mi hanno aiutato. Da una parte ho avuto modo di creare tante relazioni, legami profondi, quindi sicuramente la mia famiglia (sono il primo di quattro figli), gli amici, il gruppo scout, le squadre sportive e anche vivendo in un bel posto, perché i miei da Milano si sono spostati nelle marche, a San Benedetto, quindi una città sul mare. Io dalle elementari fino al liceo l’ho passato lì. Cinque mesi di mare all’anno sono stati un bel modo di vivere quegli anni. Dall’altra parte devo dire che insieme a legami forti, ho anche sperimentato il fatto di cambiare spesso setting, seguendo gli spostamenti dei miei. Nei primi anni di scuola ho cambiato tre o quattro scuole, ho fatto periodi di studio all’estero. Quindi quello che mi sono portato a casa è, da una parte, l’importanza di creare relazioni profonde che poi mi sono portato dietro tutta la vita, e dall’altra, però, anche il piacere e la voglia, e sicuramente non la paura, ma la curiosità, di andare a scoprire cose diverse. Infatti sarà una coincidenza, ma oggi mia moglie è inglese, mio fratello si è appena sposato e la moglie è francese. Una delle mie due sorelle ha vissuto per tantissimi anni tra America Latina e Spagna, quindi tutti quanti torniamo volentieri dalle nostre parti, però abbiamo vissuto e creato legami anche in giro per il mondo.

Quindi, insomma, in famiglia vi siete incuriositi molto dell’internazionale, sembra che avete costruito delle vite anche fuori dall’Italia che, appunto, forse poi sarà un tema anche per ShopFully. Ci hai raccontato che quando è venuto il momento di uscire di casa, quindi scegliere l’università, hai cercato il programma con la selezione all’ingresso più competitiva possibile. Quello era proprio il tuo criterio per scegliere un percorso di studi, piuttosto che “voglio fare una certa materia”. Da dove viene questa voglia e questa voglia soprattutto di mettersi alla prova? 

Il mondo in cui sono cresciuto io, come raccontavo prima, da una parte è stato un mondo (centro Italia), un contesto, in cui si stava bene, abbastanza benestante, rassicurante; dall’altro io avevo paura di rimanere tagliato fuori da ambienti in cui ci fossero opportunità. Tutto sommato avevo paura di non aver modo di mettermi alla prova fino in fondo, di far qualcosa che facesse davvero la differenza, entrare o avere davvero l’opportunità di entrare in posti in cui potessi fare qualcosa di internazionale. L’università, arrivando da un liceo di provincia, la vedevo come qualcosa che mi avrebbe dovuto dare accesso a queste opportunità più avanti. Oggi io ho una visione più completa, sofisticata. Per me l’idea di entrare all’università, che avesse un numero chiuso e una selezione importante, era la garanzia di avere accesso a un ascensore che mi desse l’opportunità di fare cose interessanti e mettermi alla prova in futuro.

Quindi che università? Non l’abbiamo detto, ma che università e che corso hai scelto e perché?

È abbastanza buffo, nel senso che all’epoca, seguendo questa cosa e avendo molta libertà dai miei (che non so se lascerei i miei figli), essendomi diplomato con il massimo dei voti, avevo individuato due cose che erano Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia e, dall’altra parte, Eco aveva appena lanciato Scienze della comunicazione a Bologna e c’era anche lì questo mega concorso con qualche migliaio di persone per un centinaio di posti. Io ho fatto tutte e due le selezioni, girando un po’ l’Italia con un gruppo di amici. Ero entrato in entrambe e poi alla fine avevo scelto Bologna anche per un tema di vicinanza. Mi aveva molto affascinato il gruppo di docenti (c’era Romano Prodi ecc.), che erano in questo pool iniziale a Bologna. Devo dire che poi è stata una scelta felice, perché a livello di contenuti del corso e di esperienza di persone che ho incontrato, è stato veramente formativo per il percorso che ho fatto poi successivamente. 

Diresti che tu sei una persona competitiva? Lo hai scelto per dimostrare e per competere con altri?

Io credo di essere una persona competitiva soprattutto con me stesso. Ho fatto tanto sport, mi piace competere con gli altri, però se c’è una cosa che ho imparato dallo sport è che, mentre la competizione con gli altri non è controllabile, quindi se uno è focalizzato su quello, genera soprattutto frustrazione e sentimenti negativi, la competizione con se stessi, entro certi limiti, è una cosa sana. Poi con l’età ho imparato anche a gestire anche questi limiti. Il rischio di una competizione con se stesso è non essere in grado di celebrare i successi, vivere sempre alla ricerca dello step successivo. Devo dire che una delle cose in cui penso, negli anni, di essere maturato, è combinare questa forte competitività verso il mio limite, il poter far meglio, con un senso di soddisfazione e anche una capacità, ogni tanto, di staccare la spina e dedicarsi alla pura attività di fun e di divertimento.

Parlando un po’ del tuo percorso lavorativo, inizia da Buongiorno Vitaminic perché hai conosciuto uno dei founder di Buongiorno e ti ha preso come uno dei primi tre impiegati dell’azienda. Ci puoi raccontare un po’ tutta questa situazione? Come lo hai conosciuto e cosa ti ha convinto ad andare a lavorare in una realtà emergente (appunto eri il terzo impiegato), piuttosto che scegliere un’azienda più grande, più avviata e scegliere un percorso più simile, immagino, a quello dei tuoi colleghi universitari?

La storia di come ho conosciuto Mauro Del Rio, che è il fondatore di Buongiorno, è abbastanza divertente. L’ho raccontata in prima battuta a lui e poi a tanti amici negli anni. Sostanzialmente io ero all’ultimo anno di università, a Bologna. Stavo facendo il complementare in Economia e strategia di impresa, se non ricordo male. Ero appena rientrato da un anno di Erasmus alla allora Guildhall, che era un’università inglese che ora si chiama Metropolitan University. Questo corso di Strategia di impresa a cui andavo, invitata (cosa che oggi è molto comune, allora meno) manager di grandi imprese a portare testimonianze. Quindi, dopo il direttore marketing di Ferrari, arriva questo Mauro Del Rio, founder di…allora non si chiamava neanche Buongiorno, si chiamava, credo, Be Ventures, la prima società, la prima s.r.l. di Mauro. Per cui arriva lì, racconta di essere un manager in forte ascesa in Accenture, allora Andersen Consulting, che però si era dimesso per creare questa azienda, all’epoca (poi è diventata tutt’altro), di email marketing. Io devo dire che, all’epoca, non ero così tech-heavy, ero molto più proiettato verso il modo tv, media tradizionali. L’ho sentito, aveva raccontato che era già sposato, con figli e ho detto “non vorrei essere nei panni della sua famiglia. Che scelta avventata!”. Dopodiché un ragazzo nell’Aula Magna davanti a me, me lo ricordo ancora, dice: “magari cercate persone, ti posso mandare il curriculum?”. Io quasi per un senso di antipatia rispetto alla persona che glielo aveva chiesto, che non conoscevo bene, ma l’aveva chiesto in modo saccente, ho detto “glielo mando anche io il curriculum”. Gli ho mandato il curriculum e la scintilla è scattata con il fatto che mi hanno richiamato al telefono due ore dopo, il che mi ha molto colpito rispetto ai tempi che avevo visto delle corporation. Quando ho detto “sì vediamoci, volentieri”, avevo altre cose in ballo, però vediamoci. Mi aspettavo mi dicessero “tra due settimane”, e invece mi proposero di vederci la mattina dopo per un colloquio. Per cui andai lì super incuriosito e trovai una seconda persona, Pietro De Nardis, anche lui poi manager, investor nel mondo digital, che mi fece un colloquio di un’ora sull’ultimo film che avevo visto che, by the way, non era un film qualunque, ma era Fight Club, quindi avevamo argomenti di cui parlare per un’oretta. Da questa conversazione, del tutto non attinente al tema, colsi, forse in modo più di pancia che non di testa, il tipo di persone che avevo davanti, cioè velocità, forte concentrazione sul capire chi hai davanti, il livello di curiosità a prescindere dagli argomenti, livello di comprensione dei dettagli e un po’ di pancia decisi che, qualunque cosa stessero facendo (e come dicevo prima non è che avessi una comprensione o passione particolare per l’aspetto di prodotto che facevano allora), io voglio provare a lavorare con persone di questo tipo qui. Tutto sommato, questa cosa, capita di pancia una ventina di anni fa, è molto vicina alla conclusione a cui sono arrivato di testa vent’anni dopo, cioè la qualità delle persone, la talent density chi hai intorno è di gran lunga la cosa più importante, sia per fare cose rilevanti, sia anche per passare bene il tempo che passi al lavoro. 

È una bellissima storia, grazie di avercela raccontata. Sicuramente si vedono anche tante cose del tuo carattere. Appunto, dicevi che non eri competitivo con gli altri, ma forse un po’ di competizione in quella domanda di mandare il curriculum, lo vediamo anche qui. 

Temo di sì.

E poi appunto, voglia di scoprire realtà innovative, perché anche se hai fatto una scelta di pancia, questa attitudine al rischio forse si vede già da questa scelta. Per continuare a parlare di Buongiorno, e ne abbiamo parlato varie volte sul podcast, perché è una delle realtà Tech che in Italia è stata più di successo, anche con il merger Vitaminic. Che ruolo avevi e soprattutto cos’hai imparato da quella esperienza? Poi ti volevamo fare questa domanda… sai che in Silicon Valley c’è la PayPal Mafia, quindi tutti quelli che hanno cominciato PayPal…esiste in Italia una Buongiorno Mafia? Perché effettivamente vi rincontriamo in vari episodi e tutti hanno continuato a fare poi aziende, start up tech, venture capital, cose interessanti.

Parto dalla prima, quindi che percorso ho fatto io, perché questo secondo me è interessante. A posteriori è la sintesi del percorso che va fatto fare alle persone che si crede possano avere talento. L’altro giorno ne parlavo con Luca Ferrari di Bending Spoons, ci confrontavamo proprio sul tema di come far crescere le persone o di quali siano le cose più importanti per creare un’azienda che abbia successo e, alla fine, facendo la super sintesi, il tema è: devi prendere persone di talento e poi, quando le hai, le devi buttare e le devi far fare, in modo accelerato, esperienza. Il mio percorso in Buongiorno è stato fatto così, nel senso che sono arrivato e di fatto facevo il copywriter di questa newsletter di battute che arrivava a qualche milione di persone, che era il cuore dell’azienda allora; due anni dopo ero a capo di un’area di marketing services digital, mobile, che faceva progetti di digital marketing allora, vent’anni fa, per Tim, Barilla, Ferrero. Quando pensavo di cominciare a padroneggiare quella cosa con grandi clienti, banche, avevo imparato a farmi la cravatta, un giorno mi hanno detto “dobbiamo far partire il business di Grande Fratello, televoti, digitalizzazione dei programmi televisivi. Fai quello”, “ma abbiamo contratti?”, “no, però domani abbiamo un appuntamento in Rai” e mi sono ritrovato in viale Mazzini a fare i primi accordi. Quando avevo messo su la parte italiana di questo mondo qui praticamente, un giorno, dopo una delle tante acquisizioni, mi hanno detto “prendi il ruolo a livello di gruppo, fai questa roba, andiamo a sviluppare con tutti gli operatori europei o tu in Inghilterra, con cui abbiamo vinto un premio a Cannes, i formati di mobile entertainment internazionali con i media e con le telco. Quello a cui sono stato esposto è stata una serie di salti in avanti, gestire team, poi team internazionali, poi team più grandi, business, prodotti diversi, che mi hanno fatto imparare, in otto anni, tantissimo. Tutto sommato mi hanno fatto anche, in prospettiva, capire quanto è importante quando trovi delle persone che potrebbero avere potenziale, esporle, anche un po’ stretchandole, a delle esperienze più grandi di loro, perché è davvero l’unico modo per crescere. Quindi il mio percorso è stato fantastico, perché poi l’ho vissuto in un contesto in cui da 3 siamo diventati 1500 persone in 30 paesi. Io avevo un team tra Madrid, Parigi, Londra, Milano. Viaggiamo ogni due/tre giorni, avevo amici da tutte le parti, ero giovane, quindi è stata anche exciting. Una parte della mia vita che ricordo a metà strada tra aver lavorato in McKinsey, quindi giornate che non finivano mai e aver fatto un erasmus di non so quanti anni. Un po’ la combinazione delle due. Per cui è stato super intenso, ma anche bellissimo e ha forgiato dei…tornando al tema della Buongiorno Mafia, penso che chiunque conosca la storia della PayPal Mafia e quindi questo gruppo di persone che hanno creato aziende da LinkedIn a Youtube, a SpaceX a Tesla, non potrebbe che essere onorato che la propria community, a cui ha appartenuto, venga anche solo paragonata. Secondo me noi in Italia siamo stati una delle community storiche sul mondo Tech, da cui sono usciti grandi manager, grandi imprenditori. Forse nel mondo di oggi, dove ci sono più capitali, sarebbero nati ancora più imprenditori, mix imprenditori-manager, di quelli che sono venuti fuori, perché c’era stoffa per creare anche più aziende di quelle che abbiamo creato. Io e Alessandro, che siamo i co-founder di ShopFully, ci siamo conosciuti ed eravamo come compagni di casa. Alessandro, se io sono la matricola 3, è la matricola 2 di Buongiorno. Ci siamo conosciuti lì e siamo amici da più di vent’anni e poi abbiamo fatto questa azienda insieme. Quello che mi piace, su cui chiuderei questa risposta, visto che avete citato la PayPal mafia, è proprio il Don, il padrino della Paypal mafia, è il fondatore di PayPal, Peter Thiel. Uno dei libri che mi piacciono di più è proprio Zero to One di Peter Thiel. Secondo me quello che ti porti da esperienze come Buongiorno è la comprensione che “si può fare”. Io arrivavo dall’università, non sapevo nulla di Tech. Ho visto che si può creare una Tech Company partendo da tre persone, raccogliere capitali, comprare 30 aziende all’estero. Si può fare in Italia. Quel tipo di confidenza che ti dà aver fatto un’esperienza del genere è il tipo di cosa che, secondo me anche in Italia, nei prossimi anni, porterà tante più aziende di successo, perché allora l’abbiamo fatto qualche centinaio di persone, oggi questa esperienza, in tante start up italiane, la stanno facendo un numero molto più grande di ragazzi che, a cascata, per ragioni puramente numeriche, genereranno tantissime altre aziende di successo.

Questa risposta e questa esperienza che hai condivido, e tra l’altro adesso che vediamo sempre più scale ups in Italia, ci saranno sempre più persone che fanno parte di queste scale ups, magari employee 1,2,3,4, che poi lanceranno a turno le loro aziende, ispirate a quello che hanno vissuto e vedere che è possibile. Invece, la cosa divertente del tuo percorso è che hai fatto un po’ le cose al contrario, perché di solito il percorso classico è università, corporate, start up, invece tu hai fatto start up subito e poi hai avuto un capitolo nella tua vita nel mondo Corporate italiano più tradizionale, nel gruppo Espresso. Però è stato solo qualche anno, poi ti è venuta la voglia di fare il salto imprenditoriale. Perché hai deciso di fare questo salto anche nel Corporate, questo passaggio, e cosa ti chiamava di più della vita imprenditoriale? 

Ho fatto questo salto intanto perché volevo, dopo tanti anni passati viaggiando, tornare ad avere base in Italia, anche per questioni personali. Volevo fare l’esperienza di una vita un po’ più strutturata, regolare. Ero comunque ancora affascinato molto dal mondo media, perché comunque ci avevo lavorato come partner tecnologico, digital, negli anni precedenti e sicuramente l’attutale gruppo Gedi mi sembrava un posto fantastico dove provare a farlo. Ci ho passato 5 anni comunque molto belli, interessanti, lavorando con grandi marchi, da Repubblica a tutto il mondo dei quotidiani locali, il mondo della radio, Radio Deejay ecc., dove ho conosciuto persone davvero di grande statura, sia dal lato giornalistico, sia dal lato talent nel mondo radio. Ho partecipato, secondo me, a una fase in cui quel mondo lì, a livello di digitalizzazione, stava sperimentando un’accelerazione molto forte. Sono gli anni in cui escono l’iPhone, l’iPad, il mondo dell’editoria si pone il tema di come recuperare le copie perdute in edicola, creando i paywall sui siti. Repubblica sicuramente era allora, magari è ancora anche oggi, in Europa, il sito di news con la più grande penetrazione sul proprio mercato di riferimento. Noi avevamo rapporti continui con il New York Times. È stato davvero molto interessante e, dall’altra parte, anche nel mondo più media entertainment, pensiamo al mondo delle radio, tutta la trasformazione verso i contenuti podcast, i nuovi canali che cominciavano ad emergere, Spotify ecc. Quindi è stato un periodo particolarmente intenso per quel mondo che io ho vissuto in prima linea. Mi sono fatto un network in Italia, diverso da quello che avevo a livello internazionale. Quello che mi ha portato a cambiare poi è il fatto che io comunque volevo fare l’imprenditore, perché volevo, guardando un po’ long term, crearmi un lavoro in Italia che non fosse per forza quello di lavorare nella parte business, commerciale, di una grande multinazionale digital, ma lavorare anche sul prodotto, sulla tecnologia. Volevo fare qualcosa di più rotondo. Con Alessandro Palmieri, che è un mio carissimo amico, ci abbiamo ragionato su per un po’, poi abbiamo trovato l’idea giusta e a quel punto non ci ho pensato molto sopra. Volevo far quello e mi sono lanciato. 

Infatti su Made IT ci piace sempre scoprire proprio gli inizi. Quindi una volta che avete trovato questa idea…intanto come è venuta l’idea? È una cosa che avevi già in mente? È una cosa che avete più studiato di fare? Quando hai deciso questa cosa, ti sei subito dimesso? Hai cominciato? Hai fatto le tue cose allo stesso tempo? Perché queste sono sempre domande che si fanno le persone che stanno pensando, magari, do lanciare la loro start up.

La realtà è che con Alessandro volevamo lanciare qualcosa di grande, di internazionale, che potesse scalare e mantenere un po’ la testa in Italia e in Europa. Ne abbiamo ragionato, come è capitato a tanti. Per esempio mi ricordo che per un periodo, cosa che magari era più affine al mondo e alle esperienze nostre di tutti i giorni, ci eravamo concentrati sul creare un servizio che aiutasse a organizzare meglio i weekend, mettendo insieme esperienze, viaggi. Quello che poi ci ha aiutato è che noi venivamo da due, tre esperienze che ci avevano strutturato, cioè sapevamo che l’organizzare informazioni su internet, il mondo classified, funzionava. Sapevamo che il mobile aveva ancora espresso pochissimo della propria accelerazione, quindi nel mondo delle app c’era un grande potenziale. Alla fine siamo inciampati, un po’ quasi per caso, nel fatto che, di tutti i mondi che pensavamo si potessero organizzare sul digitale e non erano ancora stati organizzati, quello della spesa vicino casa era clamorosamente indietro. Se qualcuno voleva organizzarsi per fare una spesa, non trovava le informazioni online (parliamo di più di dieci anni fa) e se le trovava, erano estremamente frammentate. A quel punto, chiaramente, uno si mette a ricercare, trova chi ha già iniziato e inizia ad affascinarsi. Diciamo che quello che ci ha molto colpito di questo mondo, che onestamente il retail non lo conoscevamo tantissimo né io né Alessandro, è il fatto che nella nostra bolla di amici tech-finance, tutti tendevano a far coincidere la diglitalizzazione del retail con l’e-commerce. Quando ci siamo messi a studiare i numeri, abbiamo visto che l’e-commerce era un mondo iper-frammentato, che era ancora è al 95% e oggi ancora, dopo dieci anni, all’85%, è il secondo settore economico più grande del mondo ed è ancora all’85%, dieci anni dopo, legato ai negozi fisici per motivi anche strutturali. Due, come fanno questi a portare le persone in negozio? Spendono nel mondo 30 miliardi di euro in materiale cartaceo. Per dei buoni motivi, evidentemente, perché lo fa Walmart, lo fanno tutti i grandi nazionali e internazionali. Quando abbiamo visto che, di fatto, questi numeri, così importanti, erano ignorati dal grosso delle persone che avevamo intorno, ci siamo anche fatti affascinare dall’aspetto contro-intuitivo. Alla fine un po’ mossa Kansas City: tutti vanno a sinistra, in qualche modo tu capisci che hai un insight, a destra c’è un’opportunità altrettanto grande a cui altri non stanno guardando. Opportunità grande combinata a simmetria informativa, quindi minore competizione, abbiamo detto “forse qui possiamo creare qualcosa di veramente importante”. Devo dire che è stata un’intuizione, ad oggi, felice.

L’idea è stata definita, questo era quello che avreste lanciato. Lì quali sono stati i primi passi per concretizzare? Vi eravate messi degli obiettivi o dei targets, “se riusciamo a fare questo, questo e quest’altro, andiamo avanti, raccogliamo dei capitali”? Ti hanno fatto un nvp o siete partiti subito? Come avete realizzato che Shopfully, che allora si chiamava DoveConviene, fosse l’idea giusta?

Allora si chiamava DoveConviene perché noi siamo nati con la parte consumer, quindi per noi, per rispondere alla tua domanda, lo step uno era…perché poi alla fine la vita di una start up è una specie di matriosca di problemi. Tu parti con il primo, poi c’è dentro un secondo, poi un terzo, e se ti va bene, dopo dieci anni, sei ancora ad aprire quella più piccola. Quando finiscono i problemi, finisce la start up, magari diventa un’azienda più tradizionale o cominciano altri tipi di problemi. Fortunatamente noi continuavamo a trovarne di più grandi da risolvere. Il primo era sviluppare un prodotto digitale usato da almeno un milione di persone in Italia, per prepararsi a farsi lo shopping vicino casa. Quindi lo abbiamo messo su e siamo riusciti a realizzare, a creare, una customer base importante. In parallelo ci siamo mossi rapidamente sull’aspetto finanziario. Qui ci ha aiutato un po’ il background che avevamo, quindi il fatto di aver fatto l’esperienza di Buongiorno, ci ha fatto capire che strutturarci subito bene dal punto di vista della disponibilità di capitali sarebbe stato importante e, infatti, noi abbiamo raccolto il grosso di capitali di cui ShopFully ha avuto necessità prima di non averne più bisogno, nei primissimi anni, proprio per costruire una customer base così importante in Italia, un’audience così grande. Dove ci è stato di grande aiuto il know how, il network, che avevamo, è stato fare in modo molto accelerato questa prima cosa: intuizione, prodotto, raccolta fundraise. Anche perché comunque per sviluppare il primo blocco di ShopFully, che era avere un’audience molto grande almeno in un paese, c’era anche bisogno di risorse finanziarie importanti e all’epoca, dieci anni fa, il mercato Venture Capital, in Italia, era molto più piccolo. Nel 2015, quando noi abbiamo fatto il nostro round C con Highland Europe, che è il branch europeo di un fondo americano, che è basato a Ginevra, era il primo investimento internazionale in Italia dai tempi di Yoox. Oggi fa ridere, perché ce n’è uno al mese. Era un mondo diverso, in cui noi, secondo me, siamo stati anche molto bravi, con Alessandro, ad accelerare molto la fase iniziale, in modo da dotarci dei fondi per strutturare subito un’azienda.

Avete cominciato con un servizio B2C, come ci spiegavi, avete cresciuto gli utenti, però poi avete capito che dovevate lanciare anche un modello B2B, per invitare i negozi ad attrarre i loro clienti. Secondo te, questo progresso, da B2C a B2B, è un buon modo per trovare market field? È stato difficile per voi trovare questo…non voglio dire pivot, perché avete ancora la parte B2C, però questo switch di business model?

In realtà noi, a livello di business model, non abbiamo mai cambiato. Siamo partiti da un modello che strutturalmente…tu sai del business: da una parte hai una grande community di consumatori, che però hanno un servizio gratuito, e quindi quello che ti paga alla fine gli stipendi, è la pubblicità o comunque la raccolta media marketing che fai su un mondo di investitori, che nel nostro caso sono i grandi gruppi del retail e, in misura minore, il grande mondo dei produttori di brand, sia di grocery, che di consumer electronic. Quindi in realtà il modello era intrinsecamente un modello che aveva sia i consumatori che utilizzano il servizio gratuitamente, che i clienti business che investono in pubblicità per essere presenti sul servizio. Questo fin dall’inizio. Quello che è successo in realtà è, se non il pivot, la forte estensione di cui tu parlavi prima in B2B è che noi nasciamo come una app company, cioè noi nasciamo come una app che risolve un problema dei consumatori, che poi monetizza con la pubblicità. A un certo punto di questo percorso, a metà di questi dieci anni, noi ci siamo resi conto che c’era un’opportunità molto grande, cioè noi eravamo già la più grande community e app per pianificare la spesa nei negozi vicino casa. Avevamo già un modello di monetizzazione pubblicitario che funzionava bene, però ci siamo resi conto che i nostri partner del retail, avevano un problema più grande, che era: volevano spostarsi da un modo di parlare ai consumatori nell’ultimo miglio, quindi da casa fino alla cassa del negozio, quindi nel quartiere, basato sulla carta, quindi volantini, cartelloni, materiali su punto vendita, a un modo di parlare digitale. Però avevano bisogno di essere sicuri di parlare al 100% della popolazione e chiaramente tu lì ti rendi conto che, come editore di una app, tu non avrai mai il 100% della popolazione, perché, per esempio, noi raggiungiamo oggi in Italia 15 milioni di responsabili d’acquisto, che sono tantissimi, ma magari dei responsabili d’acquisto, in un quartiere, che sono meno interessanti alle promozioni, su di noi non ci vengono. Ecco, allora ci siamo resi conto che, se vogliamo davvero aiutare il mondo del retail e dei brand a strutturare tutto l’ecosistema dell’ultimo miglio, della prossimità, dobbiamo aggiungere alla nostra app consumer, al nostro market place consumer, una piattaforma B2B che consenta di automatizzare, creare attività di marketing nell’ultimo miglio, in prossimità, non solo su di noi, ma anche su Google, su Facebook, in Programmatic, ecc. A quel punto l’azienda ha preso una doppia direzione: abbiamo una business unit nell’azienda totalmente focalizzata sul fare il miglior prodotto possibile per i consumatori, e difatti oggi abbiamo in Europa 45 milioni di utenti ogni mese che ci utilizzano; dall’altra parte invece abbiamo una metà dell’azienda che lavora alla piattaforma tecnologica che copre, non solo la nostra audience, ma tutte le audience digitali. Per cui, più che una pivot, è stata proprio una espansione, se vogliamo anche complicazione, di quello che fa l’azienda, che però nasce da uno dei problemi nuovi che abbiamo trovato nella matriosca dei problemi del retail. Molte aziende nascono così, tu fai un primo prodotto che ti dà l’ingresso in un mercato e poi capisci davvero quello di cui ha bisogno quel mercato e ne aggiungi degli altri e così fai crescere l’azienda.

A proposito di nuovi mercati, ShopFully è nata in Italia, ma abbastanza presto per una start up, è diventata un’azienda internazionale. Ci puoi raccontare un po’ di questo percorso e un po’ anche delle difficoltà che avete incontrato nel portare ShopFully fuori dall’Italia?

Noi eravamo forse un po’ bias in positivo dall’esperienza di Buongiorno, quindi noi avevamo visto un’azienda che in modo organico e anche attraverso acquisizioni, aveva fatto della crescita all’estero un motivo importante di sviluppo. Avevamo comprensione, fin dall’inizio, che per fare un prodotto tecnologico di grande valore, fosse necessario, per sostenerne i costi, sfruttarlo su più mercati e che l’Italia, per quando un mercato importante, non è gli Stati Uniti e non è la Cina. Quindi le motivazioni erano abbastanza chiare, dopodiché è stato un percorso con una curva di apprendimento importante perché noi forse siamo stati facilitati dall’avere un network internazionale forte. Ecco, secondo me la difficoltà numero uno che hai quando apri a dei paesi nuovi e hai un modello come il nostro, in cui comunque la monetizzazione è B2B, quindi ti fa parlare con altre aziende, è che comunque devi trovare dei partner locali. Con partner intendo degli employees, dei top managers, dei key manager locali che sono dei profili molto particolari, perché in realtà sono persone che devono avere dentro di sé la capacità, nel tempo, di strutturare anche un’azienda di decine di persone (quando cresci), però all’inizio devono sentirsi a proprio agio a fare con diversi cappellini un po’ come hai fatto tu in Italia: dal venditore a quello che sistema il comunicato di pr, a quello che scambia l’ultima riga di codice o quasi. Non sono tante le persone così. Trovare persone di questo tipo è molto difficile. A noi in questo ha aiutato molto il network, conosciamo persone con cui avevamo condiviso esperienze che ci hanno, se non sempre supportato loro, aiutato a trovare altre persone con un profilo simile. Secondo me, questa è una delle difficoltà maggiori quando vai ad aprire un’azienda all’estero, soprattutto lontano. Quindi la ricerca di talenti era sicuramente la cosa più difficile allora. Oggi, “semplificato” dalla situazione post covid, è più un challenge. Oggi che siamo 370 o più in tanti paesi, in 12 paesi, la difficoltà è il way of working: come fai lavorare un’azienda in cui il tech è in più paesi, la parte marketing/sales ha anche dei time zones diversi? Però la cosa che mi piace è che, se questo qualche anno fa poteva sembrare un po’ una cosa da correggere perché “in prospettiva voglio fare andare tutti in un unico punto”, post covid non c’è dubbio che per creare una cosa che funzioni, devi avere un modo di lavorare che ti consenta di attrarre talenti in posti diversi e consenta a queste persone di lavorare quando vogliono di persona, ma largamente da remoto e soprattutto di lavorare sempre più in modo smart, che vuol dire che le ore di compresenza nella giornata, in cui dobbiamo essere tutti svegli e in call insieme, idealmente, diventano sempre meno. Secondo me i due temi sono il talento, difficile da trovare lontano dal tuo paese, e mano a mano che diventi internazionale, processi way of working. Però tutto sommato, soprattutto il secondo, io lo vedo sempre meno come un problema e sempre più come un must have: se tu vuoi fare un’azienda che funziona, anche fosse tutta nello stesso paese, devi andare nella direzione di un way of working flessibile, a prescindere. Se ce l’hai internazionale, lo devi fare per forza, ma siccome tanto l’avresti dovuto fare comunque se volevi attrarre, per far lavorare bene, un certo tipo di persone, non la vedo più come una difficoltà aggiuntiva.  

Certo, poi c’è molto più una willingness delle persone stesse e una capacità delle persone stesse a lavorare in modo remoto, perché abbiamo tutti visto che funzionava, mentre prima magari anche l’impiegato non riusciva a capire bene come avrebbe fatto il proprio lavoro. E poi è interessante quel che dici nel trovare talento lontano, perché effettivamente soprattutto in una start up, più vicino sei al core, più vedi il founder che fa mille cose, più capisci che è un posto deve devi fare mille cose. Più lontano sei e più vuoi in realtà fare solo il tuo ruolo e quindi bisogna instillare questa idea della start up, dell’imprenditorialità e del dinamismo anche fuori dal proprio paese che, come dici, non è facilissimo. Interessante vedere che questo è un core challenge. Quando ci hai raccontato la storia di ShopFully, l’hai divisa un po’ così: i primi 4/5 anni sono stati veramente la crescita del direct to consumer, quindi del B2C, fundraising e l’inizio dell’internazionalizzazione e poi, dopo cinque anni, la creazione del management team, della governance, quindi strutturarsi un po’ più come un’azienda matura, e poi anche questa estensione nel B2B e crescita con varie acquisizioni che vi hanno reso un gruppo sempre più grande. È stato un percorso calcolato? Avete, anno dopo anno, messo dei target per l’anno dopo sapendo dove sareste andati, oppure è stata una crescita molto naturale con il percorso di ShopFully e nuove persone che entrano e l’idea che evolve?

Il modo banale di risponderti sarebbe dirti una combinazione delle due cose, che però è anche la verità, nel senso che, secondo me, Alessandro ed io avevamo una visione abbastanza simile a dove siamo arrivati già all’inizio, però ad altissimo livello. Noi volevamo collegare gli smartphone in particolare, o comunque il consumatore che utilizzava lo smartphone con…centinaia di milioni di persone che devono fare acquisti e decidono cosa e dove comprare con lo smartphone, volevamo collegarli con centinaia di migliaia di negozi attorno a loro, però con una vision ad alto livello. Avevamo chiaro che nel fare questo avremmo potuto dare una ragione forte ai consumatori; creato valore per i consumatori; fatto risparmiare tempo e soldi ai consumatori e, dall’altra parte, creato un media molto efficace per retail e brand. Quindi, questa era la visione iniziale e, tutto sommato, l’azienda rispecchia quella visione. Secondo me, tornando alla sintesi perfetta che hai fatto tu, noi abbiamo fatto tantissimi errori, ma una cosa su con cui alla fine abbiamo proceduto bene, è stato andare per step, cioè abbiamo consolidato l’Italia e un posizionamento molto forte sul prodotto uno, su cui continuiamo a investire tanto, cioè il prodotto consumer. A un certo punto ci siamo resi conto che c’era una sinergia forte tra quel prodotto consumer e creare una piattaforma tecnologica B2B. Lo abbiamo fatto, quando abbiamo deciso di farlo, abbiamo capito che non sarebbe stato pretenzioso partire da zero, perché noi avevamo una cultura, all’epoca, molto più consumer e abbiamo comprato un’azienda tech company piccola, B2B, che già voleva fare quello. Poi molto ce l’abbiamo messo noi, però avere quel seme, quella cultura, quel primo gruppo di persone, ci ha consentito di creare qualcosa che non era tanto nel dna dell’azienda iniziale. Magari c’erano persone, in azienda, adatte a contribuire, ma avevamo bisogno di un punto di aggregazione lì intorno. Poi, arrivati a una certa dimensione, ci siamo resi conto che, siccome uno dei challenge all’estero era portarsi a bordo anche dei team molto forti, acquisire aziende, in Italia e all’estero, poteva essere una strada. Lo avevamo visto succedere nell’esperienza in passato e abbiamo iniziato a farlo. Per cui devo dire che il percorso è un percorso che, confrontandomi anche con altri imprenditori, è abbastanza comune. Ci siamo arrivati con la nostra sinusoide di tentativi ed errori. Vista a posteriori sembra piuttosto razionale, ma diciamo che poi quando torni indietro, ti rendi conto che sei arrivato a fare certi cambiamenti, o a decidere certe cose, quando anche la massa critica di quello che avevi fatto, lo sviluppo del business o di certi prodotti, aveva raggiunto il giusto livello. Direi che è stato un percorso abbastanza lineare.

Abbiamo appena parlato dell’evoluzione di ShopFully da scale up ad un’azienda matura e sono sicura che le cose sono cambiate moltissimo in questo percorso e questa evoluzione. Anche tu come CEO, sei rimasto CEO di ShopFully e hai dovuto evolvere molto. Ci puoi raccontare un po’ di questa tua evoluzione come CEO? Come hai imparato cosa fare in ogni fase della vostra crescita?

Il mio lavoro è cambiato tantissimo in questi dieci anni e devo dire che è anche uno dei motivi di divertimento, di fun, nel farlo tutti i giorni. Mi sembra di fare una cosa completamente diversa, sia nei contenuti, sia nel mio contributo, rispetto a due anni fa, quattro, cinque, dieci anni fa. Provando un po’ a schematizzare il perché: l’azienda l’abbiamo creata insieme io e Alessandro, gestendola come co-CEO per una lunga fase, e questo ci ha consentito (ma credo sia quello che succede a tutti i founder), di avere una fase iniziale in cui l’azienda non ha un gran bisogno di coordinamento orizzontale, le persone si conoscono tutte, i founder sono molto hands on, (noi eravamo tutti e due manager con una bella esperienza alle spalle), e quindi ciascuno nelle proprie aree riusciva a far funzionare le cose bene e poi ci sincronizzavamo, essendo anche amici, molto facilmente. A un certo punto poi sono successe una serie di cose, in anni diversi, però mettendole tutte insieme: abbiamo scelto insieme ad Alessandro un management più senior, l’azienda è cresciuta, poi a un certo punto Alessandro ha deciso di passare da un ruolo operativo a un ruolo da board member, dove rimane con me, e da investitore. Quindi il mio ruolo è gradualmente, e poi in modo accelerato, evoluto. Devo dire che oggi a me continua a piacere tantissimo la parte di prodotto, di business e la parte finanziaria, anche nel dettaglio, tecnologica. Quindi, quando ne ho l’occasione, mi piace tantissimo fare dei deep dive con il team, con le persone, perché credo che nei dettagli del prodotto, della tecnologia, delle presentazioni commerciali, dei file finanziari, ci sia sempre la chiave tra vincere e perdere, tra costruire una cosa che ha valore o meno. Però ho anche scoperto una dimensione che mi piace tantissimo del fare il CEO di un’azienda più grande, da 400 persone, in tanti paesi, che ha a che fare con l’essere il sacerdote della chiarezza. Quando tu ti circondi di persone molto più brave di te in tante cose, alla fine ti rendi conto che devi fare solamente una cosa, devi dare loro dei challenge sfidanti come è stato fatto con me quando ero giovane, e dall’altra parte devi metterli in una condizione in cui capiscono cosa è importante per l’azienda, quindi capiscono qual è la vision a cui, con la propria creatività, possono contribuire nel proprio ambito. Questa cosa sembra banale, ma non è banale. Un’azienda più diventa grande, più diventa un grandissimo casino in cui non è chiaro, esattamente, quello che l’azienda vuole fare; non è chiaro come si misura il successo e con quali numeri. Io ho fatto un grandissimo sforzo in questi anni e ne sono molto contento, con l’aiuto del management team e di tante persone, per cercare di creare un’azienda che non dipende da ipse dixit, cioè il CEO ha detto x, il management team ha detto x, ma un’azienda che cerca di costruire una visione scritta, condivisa, che tutti possono leggersi, che rimanda a dei numeri che tutti possono leggersi e con cui le persone di talento che noi assumiamo, sono in grado di fare i propri bet, fare i propri challenge, inventare il prossimo metro da scavare nella galleria, senza ogni volta chiedere l’approvazione di tre persone sopra o sotto. Questo porta a rendersi conto che come CEO, in particolare, hai un ruolo fondamentale nell’affidare la chiarezza di questa visione. Documenti scritti, numeri, modalità di misurare il successo che davvero rendano le persone indipendenti. Questa è una cosa che nella picture di early start up non esiste: bussi, entri da Stefano, Alessandro, gli fai la domanda, ti danno la risposta ed esci. Nell’azienda da 400, 1000, 2000 persone, se vuoi che rimanga un’azienda in cui una persona a 15.000 km può fare una roba veramente creativa, si prende il rischio e ti porta il grande breakthrough, hai bisogno di creare una cultura supportata anche da questo tipo di chiarezza. Secondo me il CEO fa largamente questa cosa qui.

Infatti, appunto parlando di chiarezza, una cosa che fai molto è condividere le tue idee di leadership e di management su LinkedIn. Lo fai, immagino, per creare chiarezza anche nella tua leadership style. Quali sono alcune delle tue idee di leadership, o ci sono delle filosofie di leadership che segui?

Non so se parlerei di filosofia, perché io poi ho un’ossessione per cercare di trasportare sempre la visione sistemica in actions, quindi come ci aiuta questo modo di vedere le cose a prendere decisioni diverse, a fare le cose meglio? Ho due o tre principi, che a me piacciono particolarmente, perché sono cose, almeno per me, contro-intuitive, cioè cose che oggi faccio in un modo, perché l’ho scoperto anche leggendo libri, parlando con persone e che prima facevo in modo diverso. Uno di questi è il concetto di care to dare, quindi l’idea che ci possa essere uno stile di management che metta insieme, anzi che deve mettere insieme, la parte empatica di sviluppare un rapporto molto forte e personale con le persone, con il fatto però di sfidarli ad asticelle, ostacoli, con aspettative sempre più alte. Per una lunga parte della mia carriera, ho vissuto proprio, per come sono fatto personalmente, il conflitto tra l’essere vicino alle persone e voler stabilire dei rapporti personali forti e, dall’altra parte, però, voler creare uno stile anche…alla fine un grande team è come un gruppo di sportivi professionisti: c’è lo spirito di spogliatoio ma poi bisogna ottenere il risultato. Il primo principio importante che ho trovato riassunto benissimo nel libro Care to Dare della Goldsworthy, è l’idea che queste cose non sono in contraddizione. Un grande leader è un po’ come quello che ti regge nella cordata quando arrampichi: ti deve dare quella sicurezza lì, cioè io sono qui per te, ho stima di te, credo in te, ti ho scelto perché vedo il valore in te, ma dall’altra parte non per questo ti dico “fai la collina di 200 metri”, anzi, ti dico “proprio perché hai la mia sicurezza qui sotto, fai la montagna da 2000 metri. Ti sfido a farla”. Questa presunta contrapposizione tra uno stile morbido e uno stile duro nel management, che secondo me nelle start up è particolarmente forte, e che secondo me, invece, codificarlo nella cultura, far capire che non sono due cose che si contrappongono, ma anzi, avere un rapporto forte, avere stima forte delle proprie persone, anche a livello umano, è il presupposto per chiedere a queste persone di dare più del massimo. È stata una cosa che ho capito, non solo leggendo, ma anche sperimentando e che credo sia super importante. Un altro principio che secondo me è veramente importante, è quello del polarity thinking, cioè accettare come management team, come CEO, che l’evoluzione della tua azienda non è un compromesso tra velocità e qualità delle cose che fai, tra marginalità e crescita dei ricavi. Ci sono una serie di opposti che sono inconciliabili. Tu alla fine, a distanza di sei mesi, puoi dover andare dal tuo team a dire “ragazzi, so che avevamo detto veloci, ma c’è troppo debito tecnico, cioè stiamo sviluppando male il prodotto, quindi adesso ci concentriamo sul sistemare e fare qualità”; oppure “ragazzi, so che vi avevo detto crescita della top line, crescita, ma adesso per sei mesi è profitto, profitto, profitto”. Questa secondo me è un’altra cosa fondamentale, cioè non bisogna vergognarsi se il CEO, il management team, non sono in grado, in un mondo come oggi, di tracciare una linea retta, fare un milione e fare un billion in cui tu, su questi temi, riesci a tenere un atteggiamento univoco. Al contrario, bisogna essere fluidi nel passare dall’uno all’altro, tipicamente non fare le vie di mezzo in cui non riesci né a raggiungere uno né l’altro, ma accettare che in momenti diversi dell’azienda, non è contraddittorio, come in uno swing, passare da un estremo all’altro. Il che vuol dire che, per esempio, il management team ha il profeta della velocità e il profeta della qualità, o dei costi e dei ricavi, che non devi marginalizzare quando la nave punta nell’altra direzione, ma devi tenere on board, devi ascoltare, devi consolare nel loro sentirsi al posto sbagliato, perché quando la nave sterzerà nell’altra direzione, saranno loro a prendere il timone. Questo è un secondo principio, secondo me, molto importante. Se dovessi dire queste due: la contraddizione potenziale tra stile duro e stile invece empatico, che non è una contraddizione; e la contraddizione potenziale tra “il mondo cambia di continuo, come faccio a tracciare una rotta invece che è dritta?”. Non devi, perché tu cresci con una sinusoide. Se potessi dire al me stesso di dieci anni fa due cose che ho imparato faticosamente e che non credevo all’inizio, sono esattamente queste, a cui ne aggiungo una terza: proprio per questo motivo il manager, il CEO, non deve in alcun modo pretendere o fingere, un po’ come il genitore, un livello di perfezione o di competenza superiore a quello che ha, perché invece la trasparenza, l’esporsi nella propria fatica, nella propria difficoltà, nell’onestà intellettuale, secondo me è quello che paga nel medio periodo. Quindi se vogliamo tornare indietro, mi direi “non devi essere perfetto, devi fare il meglio che puoi. Puoi cambiare idea, perché il mondo ti richiede di cambiare idea anche con una certa frequenza. Non devi scegliere tra l’essere challenging ed essere come vorresti vicino alle persone, perché si può essere entrambi. Secondo me, se già togli questi due o tre pesi dalle spalle di uno che crea un’azienda, e gli dici che può essere un po’ tutte queste cose, purché sia trasparente nel modo in cui si espone agli altri, rimane ancora tantissimo da fare, però è un po’ più semplice districarsi.

Grazie Stefano, potremmo letteralmente fare un episodio grazie a questi due o tre consigli, perché sono davvero preziosi e sentirti, con questa chiarezza, spiegare questa evoluzione e queste cose che hai imparato, trovo sia davvero interessante per le persone che sono magari indietro rispetto a te o che stanno per affrontare queste problematiche. Ti abbiamo sentito dire al Burning Innovation, che hai parlato degli ingredienti che servono per fare innovazione. Ce li puoi raccontare velocemente qui?

Secondo me il mondo ha bisogno di semplicità. Soprattutto per chi deve fare innovazione io credo che siano due. Il primo è la densità di talento. Io penso che uno dei migliori libri scritti in questi anni sia No Rules Rules del CEO e founder Reed Hastings, di Netflix. Alla fine le cose che funzionano sono quelle semplici e la cosa semplice è che un’azienda, per avere successo, deve avere la più alta concentrazione o densità di talento possibile. Quindi, se dovessi dire dove investire l’80% delle energie è sulla qualità e sulla tipologia di persone che si portano a bordo in azienda. Il rimanente 20/30/50%, visto che sono due cose, secondo me è creare un ambiente di lavoro, un contesto di lavoro dove ci sia un fortissimo decentramento decisionale. Se prendi persone che abbiamo una forte componente di drive, voglia di far succedere le cose, brillanti intellettualmente, chiaramente poi le vuoi mettere in un contesto in cui possano fare la differenza. Ecco, questo contesto è una cosa che ha a che fare con il way of working, quindi sono persone a cui non devi dare la carica perché la carica ce l’hanno naturalmente e quasi devi impedire che vadano in burnout. Devi però fornire un contesto in cui abbiano challenge più grandi di quelle che sentono di poter affrontare, perché questo è quello che le motiva; in cui capiscano qual è la visione, quindi capiscano il contesto; le guidi attraverso il contesto, facendo capire dove si sta andando, più che dicendo loro “devi fare A, B o C”. Terza cosa, devi dare loro dei numeri chiari con cui misurare se quello che stanno facendo funziona o meno. Secondo me, se alla fine dovessi riassumere quello che deve fare anche il CEO di un’azienda che vuole fare innovazione, è largamente questo: chiedersi come attrarre più talenti e misurare se effettivamente ne stai o non ne stai attraendo di più rispetto a sei mesi, un anno, due anni fa; e secondo, chiederti se hai creato un ambiente in cui le persone riescono a prendere una percentuale sempre più alta di decisioni in modo autonomo e indipendente. Questo dipende, secondo me, largamente, dalla capacità che l’azienda ha di spiegare qual è la direzione e come misurare il successo. È veramente così semplice secondo me, purtroppo poi realizzarlo è un po’ meno semplice di così, ma io mi sono convinto che i principi che ci sono dietro sono veramente principi base, il che è un bene, perché le cose complicate sono difficili anche da realizzare, mentre quelle semplici possono avere davanti tanto lavoro per diventare reali, però se già la visione è chiara si è già un passo avanti.

Invece hai un consiglio che daresti a un giovane imprenditore che si vuole lanciare oggi nel mondo start up, innovazione?

Provo a darne due di direzioni diverse. Il primo, molto pratico, visto che mi hai parlato di un giovane imprenditore, è: una volta che si è capito che l’ambito in cui ci si vuole lanciare è grande abbastanza, cioè il problema da risolvere complessivo è grande abbastanza, cioè c’è di che creare un’azienda, però spezzettare questo problema è affrontarne un po’ uno alla volta. Secondo me la fase inziale della vita di una start up è un momento in cui c’è tanta complessità, poche risorse, bisogna risolvere un problema alla volta: il finanziamento, il prodotto, l’assunzione delle tre persone chiave. È veramente fondamentale che, capito che la vision mi porta in un posto dove voglio andare, dove merita di andare, dove vale la pena di andare, però poi avere la lucidità di non volere affrontare troppi problemi alla volta e vincere una battaglia alla volta. Il mettere in moto la macchina succede creando una serie di piccoli successi: prodotto che funziona per i consumatori – check; il primo milione raccolto – check. Uno alla volta, perché tutti insieme è overwhelming, diventa troppo e tutti a metà è un po’ come nel polarity di prima. Purtroppo i compromessi, in certi momenti, tra zero e uno devi fare uno. È meglio avere il prodotto a uno e soldi a zero, che tutto al 50%, perché a quel punto diventa tutto complicato. La seconda e ultima, che forse è rivolta più a uno startupper o CEO più avanzato, che è una delle cose che ho imparato più tardi, è che una caratteristica fondamentale è essere sempre, lo definirei, emotionally balanced. La grande sfida per un founder, per un CEO, è che tu devi essere sempre, dal punto di vista della tua serenità personale, di tua calibrazione personale, come se fossi non alla fine, ma all’inizio di una maratona, perché tu non sai quanto è lunga e perché la persona che entra in ufficio da te, magari anche alle sette di sera, magari aspetta di vederti da dieci giorni, e tu, essendo non necessariamente brusco, ascoltando un po’ di meno, distruggi quello che hai creato in un mese o due mesi prima. Questo ti fa riflettere sul fatto che però tu sei una persona come gli altri, da cui c’è questa aspettativa che tu sia sempre centrato, ma tu non sei sempre centrato, sei stanco, hai i tuoi problemi a casa, con gli amici, la famiglia, hai la tua stanchezza fisica. Ecco, questo vuol dire che chi crea un’azienda deve capire molto presto nel percorso che deve prendersi cura di se stesso o se stessa, molto di più di una persona che ha un ruolo diverso, perché il mondo esterno si aspetta che tu in ogni momento di ogni giornata rifletta, non solo a livello di contenuti, ma anche di forma, ma anche di emozioni, la perfetta espressione di quello che sei. Quando non lo fai, di fatto fai semplicemente dei passi indietro rispetto a quello che hai creato in precedenza. Io mi sono sentito di condividere, qualche tempo fa, il fatto che il long lunch break, il fatto che mi fermo due ore per fare allenamento, ahimè non più tutti i giorni, ma alcuni giorni, perché tanto inizio la mattina prestissimo, finisco la sera tardi e io voglio essere libero di ammettere che io a metà giornata, dopo che ho lavorato cinque ore e mezza, e con la prospettiva di farne altre sei, ho bisogno di fare una cosa divertente che non c’entra niente con il lavoro, perché altrimenti alle 14.30 non sono la persona che vorrei essere nel meeting complicato che affronto. Il messaggio che ho voluto passare sia ai miei colleghi che ad altre persone che si trovano nella mia situazione, siccome io ci ho messo del tempo ad arrivarci, è che nessuno di noi è giudicato sul numero di ore consecutive che riesce a fare, ma tipicamente su quello che realizza in quelle ore. Il numero di ore è un po’ un given. Si dà per scontato che in certi ruoli si lavori tanto. Se riesci a lavorare tanto, essendo anche felice, cioè divertendoti, organizzandoti in modo da riuscirlo a fare, rispettando anche il fatto che tu sei anche una persona, diventi due volte più efficaci. Siccome un po’ tutti vorremmo essere più efficaci, il messaggio è cercare di essere più felici non è un trade off con l’essere efficaci, ma è il modo per fare lo step successivo dal punto di vista dell’efficacia e della produttività, o almeno questa è la mia esperienza.

Stefano, ti giuro che saremmo andate avanti per ore con altre domande, perché le tue risposte sono davvero delle perle di saggezza, però siamo arrivati alla fine del nostro episodio e chiudiamo sempre le nostre interviste con la stessa domanda, che ti faremo ovviamente. Quindi ti chiedo, in che modo la tua italianità ha contribuito al tuo successo?

Bella domanda! Te lo dico rapidamente. Da una parte un sano orgoglio italiano. Io ho fatto tanti eventi, soprattutto all’inizio del percorso di ShopFully, in cui si parlava delle capitali europee del Tech e ce n’erano dappertutto, non solo Londra, non solo Berlino, ma i Nordics, Parigi, Barcellona. Questa cosa che noi fossimo fuori dalla mappa (e che ora stiamo rientrando, per fortuna, ne sono super orgoglioso, grazie al lavoro di tante persone) mi dava veramente fastidio. Quindi io sono orgoglioso di essere italiano, credo che noi non abbiamo niente da imparare da altri sulla capacità di fare tecnologia e una cosa che mi ha dato ulteriore carica nel nostro lavoro è dimostrarlo nel piccolo con quello che stiamo facendo a ShopFully. Una seconda e ultima cosa, è che io credo che in Italia, fare innovazione è come danzare tra gli ostacoli. Tu devi dimenticarti che gli ostacoli sono un problema e accettare che se non ci fossero ostacoli, lo farebbero già tutti, quindi non ci sarebbe nulla da innovare e da creare. In Italia, secondo me, agli ostacoli ci siamo super abituati e quindi di natura siamo dei forti danzatori tra gli ostacoli e c’è un buon numero di persone veramente molto resilienti, ma non basta la resilienza. Noi spesso siamo più creativi degli altri nel ribaltare la visione e dire “dietro quell’ostacolo c’è l’opportunità di creare un modello di business più efficace, c’è l’opportunità di creare un prodotto che funziona meglio”. Questa cosa le persone che vengono da mercati giganti, più lineari, ce l’hanno meno, mentre noi italiani, strutturalmente, dai primi giorni in cui creiamo l’azienda, dobbiamo per forza vedere il positivo dietro ogni ostacolo. Io sento questa cosa qui, nel percorso di ShopFully, di averla usata spesso. Sento che la usa anche la parte italiana del nostro team e credo sia un bagaglio di cui essere fieri, perché un po’ tutti ci portiamo dietro quello che impariamo nell’ambiente in cui cresciamo e che, secondo me, nel fare innovazione, può essere un asset assolutamente importante.

 Bellissimo finire su questa nota positiva sull’italianità e sull’essere italiani. Quello che vogliamo è proprio ispirare i nostri ascoltatori italiani in giro per il mondo e in Italia, che le cose possono succedere e soprattutto vedere che un’azienda Tech come la vostra può nascere, crescere, continuare a vivere in Italia. Stefano, grazie veramente per la chiarezza con cui hai risposto alle domande. Penso siano state davvero di grande ispirazione e, anzi, ti consigliamo di scrivere un libro. Vogliamo vedere un libro di leadership scritto da te perché davvero penso che ci sia ancora tanto da parlare, da raccontare di cose che hai sperimentato e che possono aiutare tutti, quindi ti ringraziamo tanto di essere stato qui con noi su Made IT.

Grazie a voi, è stata una bellissima chiacchierata e a presto!

 

 

 

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