Hai il coraggio di uscire dalla tua comfort zone?
Ciao, io sono Camilla e io sono Inès. Benvenuti a un nuovo episodio di Made IT, un podcast dove intervistiamo italiani di successo per scoprire le loro storie e tutti i passi che li hanno portati ad arrivare dove sono.
Questa settimana abbiamo intervistato Aurelie Bellavigna Co-Founder ed editor di Yspot, il brand che ha rivoluzionato la vendita di sextoys e prodotti per il benessere sessuale.
In questo episodio c'è un twist sull'italianità. Aurelie nasce a Cannes da genitori di origine corsa. Influenzata dall'atmosfera glamour della città francese, fin da bambina si appassiona alla moda e viene però trasportata da quello che ci si aspettava da lei ed entra a SciencesPo, una delle più prestigiose università francesi. Dopo un'esperienza a Bristol nelle relazioni internazionali dove scopre i primi studi di femminismo, finalmente decide di seguire la sua passione e si trasferisce a Milano, la capitale della moda italiana. Dopo sei anni come copyrighter per dolce Gabbana e Yoox, Aurelie inizia a perdere la passione per il suo lavoro e un corso di yoga e meditazionele fa capire che deve lasciare la sua comfort zone. È a questo punto che chiacchierando con il suo amico Daniele riflettono sull'esperienza negativa di comprare sex toys e gli viene in mente un'idea: perché non usare la loro sensibilità estetica e il loro gusto per creare un'alternativa agli agghiaccianti prodotti di sexy shop? Nel 2020 nasce così Yspot, un business che oltre ai sex toys propone anche prodotti di igiene intima e integratori e che triplica i ricavi ogni anno e sta per chiudere un round di investimento da un milione di euro. Per riproporre in Italia i casi di successo del sexual wellness, Aurelie ha dovuto sconfiggere tabù e pregiudizi, ma curando ogni dettaglio è riuscita a rivoluzionare un prodotto per intercettare un target completamente nuovo.
In questo episodio con Aurelie scopriamo l'importanza di creare una community e di come approcciare il marketing in un settore così intimo e personale come quello di Yspot, ma non solo. Ascoltiamo la sua storia.
Partiamo da una precisazione importante e un po’ insolita per Made IT perché non sei italiana, sei francese, nata a Cannes, però poi parleremo di come hai scelto di fare l'Italia la tua casa. Per cominciare, ti volevamo chiedere di raccontare un po’ in che ambiente sei cresciuta e cosa vuol dire essere una ragazza a Cannes.
Bella domanda, perché secondo me Cannes è un contesto un po’ particolare. Ha delle qualità molto italiane, comunque è un ambiente mediterraneo. Sono nata negli anni ’80, quindi sono cresciuta negli anni 2000, nella mia adolescenza, direi che crescere a Cannes è un po’ difficile. Mancavano dei modelli di femminilità che non fossero un po’ appariscente, vistosi, molto legati ad una certa idea del lusso e già così forse da piccola ho iniziato a leggere Vogue e altre cose che mi dessero un punto di vista un po’ più ampio su cosa fosse essere una donna in generale.
E i tuoi genitori cosa facavano? In che contesto sei nata?
La mia famiglia ha origini corse però i miei sono anche loro nati a Cannes, lavorano tuttora nel turismo di lusso, famiglia abbastanza classica, tranquilla, un po’ cattolica ma non troppo. Come in molte famiglia anticipando poi forse qualcosa legato all’azienda, non si parlava assolutamente di sesso, di relazioni, dei sentimenti. La classica famiglia simpatica ma non troppo aperta su certi argomenti.
Sì, infatti poi ne parleremo dopo per vedere anche come hanno reagito all’azienda che hai creato.
Eh, non lo sanno!
Ah, non lo sanno?!
Lo sa mia madre, però va beh.
Ah, ok ok. Infatti perché poi uno nella nostra generazione la gente è molto più aperta, però raccontare certe cose ai genitori e magari ai nonni che hanno altre mentalità ancora un po’ indietro e un po’ chiuse è complicato. Quindi ti volevamo chiedere. Hai lasiato poi Cannes e sei andata a studiare in una prestigiosissima università francese che si chiama SciencesPo, dove hai studiato l’equivalente di scienze politiche e poi sei andata a Bristol, in Inghilterra, per fare un master in relazioni internazionali. Avevi già idea di cosa volevi fare, all’epoca, che ti ha guidato in queste scelte di studi?
In realtà all’epoca gli studi erano proprio una scelta in sé. Volevo fare proprio SciensesPo avendo già idea di quello che avrei potuto fare dopo. Ho scelto le relazioni internazionali perché nella mia testa all’epoca le nazioni unite o qualche NGO potevano essere ambienti di lavoro interessanti prima di confrontarmi con la realtà di quello che sarebbe stato. Che giustamente non sto parlando delle nazioni unite.
Sì perché poi diciamo che a Bristol hai scoperto i primi studi di femminismo che è un tema che ti ha appassionata fin da subito. Cosa ti ha colpita in particolare?
Devo dire che forse le cose sono cambiate a livello universitario, però diciamo che le gendere studies per cui non c’era niente all’epoca, era un campo nel quale durante la mia SciencesPo era toccato proprio…qualcuno poteva dare una lettura femminista di qualcosa ma proprio in quando specializzazione, non c’era e quindi il campo delle relazioni internazionali era monopolizzato dagli uomini. Quando si parla di guerre, conflitto, ovviamente c’è anche un modello di mascolinità egemonica intorno al quale c’erano un sacco di figure femminili un po’ nascoste.
E poi hai deciso di prendere una decisione molto di pancia e hai deciso di trasferirti a Milano. Come mai questa decisione? Cosa ti ha spinta a venire in Italia?
è sempre stato per me, non so, come qualcuno sogna New York o Los Angeles, sognavo un po’ Milano. Nonostante non fosse molto distante da dove sono cresciuta, c’era qualcosa di molto affascinante. Gli italiani alla moda, queste dinamiche. Quindi ho pensato che in Inghilterra forse in questo momento non ho voglia di stare. Non volevo più stare lì e ho pensato “andiamo a Milano per qualche anno e vediamo, proviamo, forse a lavorare nella moda, subentrare in quel mondo e a perfezionare”, ho studiato un po’ di italiano al liceo e ho pensato “qualche base ce l’ho”.
Una cosa che ho trovato interessante, che abbiamo appena parlato dei tuoi interessi negli affari internazionali, nel femminismo e forse non tante persone unirebbero con una passione per la moda, non per forza persone che vogliono lavorare alle nazioni unite leggono Vogue quando sono piccole. Comunque a Bristol eri inserita in quel mondo. Com’è riaffiorata questa passione per la moda? Come ti è arrivata questa voglia di lavorare nella moda che ti ha portata a Milano?
Allora, in realtà forse c’è stato un momento in cui ho pensato “ok ho fatto degli studi” un modo di ragionare non molto intelligente ma è stato il mio in quel momento, “ho fatto degli studi seri, sono andata alla SceincesPo, penso di aver fatto felice la mia famiglia” perché ci tenevano e in molti casi molti genitori proiettano le cose sui figli e penso che in molti seguiamo i percorsi per loro. Quindi nel momento in cui ho fatto degli studi seri, chiusi, ho pensato che adesso forse mi dedico ad un cosa che interessa a me, proprio che mi ha sempre interessato.
Sì, che è una realizzazione che uno fa a posteriori ma è molto importante capire quali scelte sono state fatte per far piacere agli altri, quali invece sono scelte che uno fa perché sono cosa che vuole fare veramente. Quindi sicuramente uno spunto molto importate. Spesso uno non se ne rende conto finché non riflette sul proprio percorso molti anni dopo. E come detto hai continuato il tuo percorso, seguito la strada che avresti sperato, hai fatto prima un master in Italia per imparare o rafforzare il tuo italiano e poi hai trovato un lavoro prima da dolce Gabbana dove scrivevi per il loro magazine, poi sei è passata da Yoox, che tutti conosceranno il grande ecommerce di moda e di lusso, per curare tutti i loro contenuti editoriali che nel loro magazine si sono messi da subito, sono molto forti su quel lato. Ci puoi raccontare un po’ cos'è questo lavoro, cosa vuol dire fare il copyeditor, l’editrice per una casa di moda?
Come primo lavoro era uno stage, in realtà in cui avevo un’ottima libertà in cui facevo veramente tantissime cose, perché era una struttura piccola all'interno di un brand anche all'epoca era stato uno dei pionieri del digital. Alla fine sono stati i primi all'epoca a mettere i blog in prima fila e si parlava di quello. Oggi sembra assurdo che ci fosse quella distinzione e che anzi, fossimo snobbati perché adesso le dinamiche si sono invertite completamente. Scrivevo più articoli al giorno, andavo nei backstage a fare interviste a modelle, modelli, celebrities. Molto interessante. Poi da lì sono passata ad un’azienda dove lavoravo in maniera più strutturata, seguivo procedure editoriali lavoravo su diversi siti, avevano oltre a Yoox che forse qualcuno conosce perché ci sono delle chicche pazzesche di stagioni passate, c’è un progetto in Cesanne che lavorava moltissimo con stilisti, con tutti i protagonisti alla moda su sviluppare collezioni, contenuti ed effettivamente mi sono divertita molto ad andare a Parigi, Londra, Los Angeles ad intervistare gente. Se uno ama la moda ama gli stilisti, ama la gente che crea, quindi incontrarli, parlarci, scambiare è stato molto bello.
E infatti mentre lavoravi da Yoox, che appunto era un lavoro 9 to 5, hai deciso anche di fare un corso di yoga che è, immagino la tua passione, e che ti abbia dato anche il tempo di riflettere su tutte le cose che avevi fatto, sul tuo percorso. Oltre allo yoga fisico c’è anche un aspetto più di riflessione meditativa. Cos’hai imparato dall’esperienza di fare questo corso?
Se sono onesta con me stessa, avevo un po’ perso la passione per il mio lavoro che più che 9 to 5 era 9 to 8, ma a Milano quello è normale, era diventata un 10, 11 to 8. È un dettaglio. Ma il fatto che arrivavo in ufficio tardi, non ero nel mood, non ero più appassionata. Il corso di yoga…in realtà non lo praticavo da tantissimi anni. Ho iniziato a praticarlo tantissimo e ho avuto dopo un paio d’anni ho avuto la possibilità di seguire un trainig teacher course a Milano da 200 ore che possono essere fatte in modo consecutivo, quindi praticamente impegnerebbe un mesetto, in questo caso è stato spalmato su un anno. A parte il fatto che ogni tanto dovevo alzarmi e alle 5 e andare a meditare due ore alle sei e poi fare qualche ora di pratica ed era impossibile per il 9 to 5. Le persone che incontravo non c’entravano niente con le persone che incontravo in ufficio. In ufficio c’erano persone fantastiche, altre meno fantastiche, c’era di tutto. Però diciamo quell’aspetto moda, salviamo vite, lì c’era gente molto più distaccata. Il mio insegnante stesso ha una teach school tutto l’anno e sembra uno yoga clichè, anche se tu non aspiri a vivere in quel modo prendi quello che reputi essenzaile, indispensabile. Sì, durante la meditazione, quelle due ore che sarebbero state trascorse andando in ufficio, in un mood un po’ così, tutto di fretta, secondo me ha un effetto profondo sul modo in cui affronti tutto il resto. Esci da lì con un po’ più di distacco in modo molto positivo. Vedi le cose con un occhio molto più obiettivo forse, con più serenità.
Infatti poi quando hai finito il corso penso lo stesso anno, poco dopo, ora ci dirai, hai anche deciso di lasciare il tuo lavoro e lavorare sempre come copyeditor ma da freelance. Quindi non essere più legata ad un’azienda ma fare il tuo lavoro indipendentemente con i clienti che sceglievi tu. Hai lavorato con vari brand di moda. Cosa ti ha spinto a lasciare il tuo lavoro? Immagino che in un certo senso non sia un caso che sia successo dopo questo corso.
Sì in realtà diciamo che ho preso la certificazione nel gigno 2016 e sono andata via nel giugno 2016 dopo 6 anni precisi in azienda. Un anno prima ho deciso di intraprendere il percorso, avevo pensato “questo lavoro non mi dà gioia, le soddisfazioni che doveva darmi forse e le ha date”. Io stessa avevo dei modi di rispondere o di pormi con le persone che non erano il massimo. Non avevo più la solita educazione nei modi e ho pensato “non voglio essere questa persona un po’acida, non voglio che questo sistema corporate in cui non mi trovo bene mi facesse diventare una persona che non conoscevo” e il modo migliore è andartene. Lo yoga inizialmente l’avevo pensato come una cosa che avrei fatto in più di qualche lavoro senza però avere un piano chiaro sul “ok lavorerò su questo brand”. Non avevo preparato niente, ho lasciato il lavoro forse in modo molto fiducioso e un po’ naif, dicendomi “in qualche modo ce l’avrei fatta a costruirmi, a trovare un equilibrio professionale fuori da un’azienda, fuori dal mondo corporate”.
Abbiamo parlato un po’ sul podcast con altri ospiti dell’importanza di mettersi nelle condizioni di capire cosa si vuole fare veramente nella vita. Cosa ne pensi tu di questo concetto?
Penso che sia fondamentale ma che sia molto personale. Penso sia difficile anticipare. Nel mio caso non c'è piano chiaro che devo implementare questo perché succeda questo.. però è molto banale però uscire dalla comfort zone, nel mio caso era avere un indeterminato con 50% di sconto sulla merce che è stata la cosa più brutta a cui ho rinunciato. Uscire e staccare da quell’ambiente rassicurandomi dicendomi “forse non hai un piano ma se stai lì non succederà niente e non saprai effettivamente cosa vuoi”, cioè, sapevo cosa non volessi, erano le dinamiche corporate, middle managment, che per il mio carattere non le vivo così bene. Sono partita dal sapere cosa non volessi, trovarsi in quelle situazioni in cui era tutto da crearsi un po’ da zero. E da lì le cose non è che sono successe per caso, ma successe in modo naturale perché forse già erano stati piantati i semi di quello che sarebbe diventato il mio percorso professionale.
Sì, che poi mettersi nelle condizioni giuste certe volte non vuol dire avere un plan preciso, ma anche darsi quello spazio per pensare, per incontrare le persone che quando uno è in un lavoro finisce alle 10 di sera, le uniche persone che vedi sono i tuoi amici, sei un po’ stanca, non sei in quella fase della tua vita in cui sei alla ricerca di nuovi spunti, nuove idee. Ed è in quel momento in cui hai lasciato il tuo lavoro, è prorpio in quel periodo che sono nate le prime conversazioni che hanno portato alla nascita di Yspot. Ci puoi raccontare com’è nata l’idea di Yspot?
Yspo per i primi due anni ho fatto tanto yoga, tantissimo sport e ho iniziato a lavorare con brand, sempre con quest’idea di costruire qualcosa che sia un brand, che sia un’agenzia, quello da subito. Di effettivamente strutturare qualcosa, creare qualcosa, oltre all’avere i clienti e al fare cose che mi piacevano. La nascita di Yspot nasce proprio in una conversazione come può capitare, nascere tra amici, sul fatto di “ok, siamo forse in un periodo storico in cui si parla di più di piacere, di sessualità, però se in Italia se vuoi comprare un toy tendenzialmente i sexy shop sono abbastanza agghiaccianti”. Poi c’è qualche altra realtà in cui uno si interessa, i posti che ci vengono in mente sono un po’ quei posti old school in cui non è molto rassicurante andare a fare un’esperienza d’acquisto. Poi, le solite cose Amazon con prodotti rosa fluo, viola glitter, quelle robe oscene…certo, la conversazione la nomino perché l’idea è nata con il mio socio Daniele, che anche lui lavorava nella moda, e a livello estetico abbiamo subito detto “cavolo, certo che sono prodotti abbastanza agghiaccianti che meriterebbero di essere un po’ elevati e trattati come trattiamo l’ultima capsul di scarpe, di borse” e così è nata, in modo molto genuino e spontaneo, legato forse al fatto di avere un background nella moda e quindi una sensibilità estetica.
Queste conversazioni sono assolutamente quelle che potrebbero avere tanti amici, una chiacchierata in cui ti rendi conto che c’è un problema e però vai avanti nella tua vita. Cosa vi ha dato voglia di voler risolvere questo problema? E da dove siete partiti per far diventare Yspot un brand?
Diciamo che eravamo consapevole di non aver inventato niente, c’erano già brand di sex toys, volevamo semplicemente fare in modo diverso, che ci rispecchiasse di più anche le aspettative dei costumer. Ci sono e c’erano brand di sex toys di lusso che però la comunicazione ci riportava in un mondo di seduzioni, di sofisticazioni vecchio stile, non molto fresco. Guardando il panorama fuori dall’Europa, c’è qualche esempio di azienda di cui la comunicazione era un pochino di più come ci saremmo aspettati. Proponevano sex toys e tutte le cose connesse perché ovviamente oggi Yspot è un prodotto di benessere che va al di là dei vibratori. Esempi di successo, perché penso sia importante nel momento in cui non inventi ma vai a riproporre qualcosa che già esiste, sia bene guardare i casi di successo, perché quello che funzionava nelle nostre teste, ovvero elevating sex toys, forse non sarebbe stato colto dai costumers. Invece i casi di successo ce n’erano un po’ in America, ci ha fatto pensare “ok, possiamo imparare un pochino da questo business model ma ovviamente metterci le nostre sensibilità, il nostro background, la nostra italianità, anche se con questo accento, non sono italiana, ma comunque dare un valore aggiunto, usare l’italianità come punto di forza che poteva creare un brand e un risultato abbastanza unico e individuale, che avesse un’identità propria.
Facciamo una piccola pausa per parlarvi di Turnover, l’agenzia nata all’inizio del 2021 che aiuta le aziende a muoversi nel complesso mondo delle vendite online, in particolare su Amazon. Se sei un imprenditore, un manager o semplicemente lavori in un’azienda e vuoi incrementare le tue vendite online, ascolta bene. Turnover gestisce gli account Amazon dei propri clienti per aiutarli a vendere di più e meglio. Per farlo, lavora su diversi ambiti, come ottimizzazione e gestione dei prodotti, creazione e coordinazione di campagne adv, l’analisi di dati per incrementare la strategia di crescita. L’investimento sulla tecnologia è chiaramente centrale. Turnover è infatti proprietaria di due piattaforme: una dedicata alla reportistica e una pensata per la business intelligence. Turnover è parte del Solution Provider Network di Amazon e partner certificato di Amazon Advertising, il programma di intermediari certificati Amazon. Maggiori informazioni su www.digitalturnover.it.
Quindi vi siete resi conto, avete fatto un'analisi di mercato, avete visto che c'era spazio per un nuovo brand in questo settore, che faceva cose in modo diverse, però rendendolo esteticamente meno imbarazzante, più sofisticato, però con una comunicazione fresca e giovane. Però a livello di concretizzare, di diventare un brand, cosa avete fatto per prima cosa dopo aver dopo aver fatto questa analisi di mercato per vedere cosa c'era in giro? Avete creato la società? Quali sono stati i primi passi che avete messo giù?
Il logo è stato una delle prime un cose, ci ha pensato Daniele. Abbastanza semplice, immediato e ci è piaciuto. Abbiamo identificato il nome e da lì dovevamo partire. Abbiamo voluto diventare ed essere un brand di benessere sessuale un po’ più ampio ma abbiamo deciso di partire, anche per motivi pratici, anche a livello di comunicazione di introduction, la categoria più forte erano i toys, i vibratori. Abbiamo creato la società e oltre a Daniele c’è un altroaltro Co-Founder molto importante, Roccardo, che viene da un’esperienza di ecommerce in Asia, una realtà diversa da quella che conoscevo ma con una conoscenza della logistica e di tutte quelle dinamiche fondamentale, senza di lui forse saremmo rimasti un po’ troppo a fare bellissimi brad kits, ma ci voleva una persona che avesse una conoscenza migliore del prodotto. Non del prodotto in sé ma come funziona effettivamente. Lì abbiamo cercato supplied, l’expertease si è formata in Cina, quello che volevamo era lavorare a quattro mani e poter intervenire sul design e avere delle costumizzazioni per miglirare alcuni aspetti del prodotto senza che nessuno di noi sia un ingegnere specifico su questa cosa. È stato un processo un po’ lungo trovare un interlocutore che avrebbe potuto interpretare le nostre idee ed effettivamente essere all’altezza di quello che c’eravamo imposti. La missione era quella di introdurre il concetto di benessere sessuale, di piacere a qualsiasi persona non avesse mai fatto il passo, di avere il coraggio di comprarlo. Quindi il prodotto non poteva essere approssimativo, da lì abbiamo studiato un assortimento di prodotto, 5 prodotti che fossero abbastanza complementari, ma qui abbiamo creato il nostro assortimento personalizzato, per avere un design che ci piacesse e poi le cose anche più pratiche, sviluppato anche il packaging qua in Italia, le nostre scatole sono molto belle, sono molto orgogliosa, perché l’importante era qualcosa distractive, che non avessero certe foto, che fosse tutto molto minimal, c’è solo il nostro logo. La logistica in casa, la spedizione dai nostri appartamenti.
Togliere un po’ questa cosa della vergogna legata a questa cosa. Avete targhettizzato le persone che non si sono mai affacciate a questo tipo di prodotto. A livello economico, con quanti soldi siete partiti all’inizio per realizzare i primi 5 prodotti?
Siamo partiti con pochissimi soldi, ho comprato lo stock, non ricordo quanti pezzi avevamo in assortimento, credo meno di 10mila, veramente una cifra ridicola, perché non ci siamo affidati a nessuno, il primo presidio l’abbiamo fatto un anno e mezzo dopo, quasi due anni, siamo partiti con praticamente niente, solo lo stock e i nostri appartamenti come magazzino.
No, lo chiedevo perché tante persone si mettono dei blocchi mentali perché pensano che da subito uno deve avere tantissimi soldi nel conto corrente per partire con un’idea di business. È interessante vedere che siete partiti con 10mila euro che immagino divisi in tre non erano così tanti, e poi a livello di foundrase, fino ad oggi quanto avete tirato su?
L’anno scorso 330k, adesso stiamo cercando di chiudere un roun che sarebbe circa un milione.
E gli investitori, immagino sono tanti uomini a cui ti devi affacciare. Sono persone che capiscono la vostra missione, che capiscono quello che volete fare, c’è qualche imbarazzo a pitchare? Com’è quella parte dell’interfacciarsi con queste persone?
Devo dire che la domanda dipende anche dal fatto che siamo tre Co-Founder, una donna e due uomini, credo che sia importante che gli uomini in generale facciano parte della conversazione sul cambiare un po’ le cose e i miei soci rappresentano questa mascolinità aperta, più decostruita e devo dire che le persone che hanno investito nel progetto ho trovato lo stesso atteggiamento, ovvero nessuna vergogna, non c’è imbarazzo. C’è chi vede il potenziale a livello di crescita perché in Italia c’è moltissimo spazio per crescere, per sviluppare un progetto di questo genere, quindi diciamo vedono il potenziale e molti sposano anche il messaggio, in modo banalmente naturale, senza imbarazzo e anzi.
Sì infatti questa è una cosa molto particolare, non potete fare advertising, non potete fare pubblicità sui social perché parlate di sesso, venite bloccati. Ci puoi parlare un attimo di come avete iniziato a fare la vostra promozione, il vostro marketing?
Sì, siamo molto ostacolati, in realtà che uno non si renda conto di quanto questi strumenti, siamo inondati da cose sponsorizzate e molti comportamenti di acquisti sono legati a quello. Hanno un impatto che finchè qualcuno non ha questi strumenti a disposizione, sottovaluta. Quindi l’idea è di avere una crescita lenta, non aggressiva ma organica, ha avuto il vantaggio di creare una fiducia, ovvero, non è che siamo partiti con molto budget, perché quello che guadagnavamo veniva investito in fotografi di moda, quindi poco budget e poca possibilità, quindi ci hanno imposto una crescita organica lavorando con micro influencer, persone scelte, all’inizio molto legato a Milano. Il progetto geograficamente è nato a Milano ma è diventato conosciuto prima a Milano e poi un po’ esteso al resto dell’Italia anche se siamo più forti a Milano e nelle città grandi. Diciamo che il vantaggio è che non siamo arrivati dal nulla, non abbiamo subito affrontato le cose importanti dal nulla. Si è creato un rapporto quasi familiare che ci ha dato quel vantaggio di essere un interlocutore di cui uno si fidava da cui uno era proprio legittimo ricevere consigli, con cui era legittimo condividere cose, perché abbiamo subito cercato di creare dei dialoghi e delle sinergie con la community in cui le persone ci parlavano di cose molto intime e personali, che sia l’endometria che sia la vulvodinia.
Questo aspetto di fiducia quando uno parla di una cosa così intima è importante, infatti una vostra strategia di marketing che forse va anche oltre al marketing, è che avete messo tanta enfasi sulla parte di educazione sessuale. Quindi avete un canale con un blog che insegna, racconta, dà consigli, tutto curato ad esperti che è una parte importante del brand, che credo che tu curi e sei molto legata a questo aspetto. Come avete deciso di fare questa cosa? Quanto è importante per un brand come il vostro? Quanto è importante l’educazione in generale quando si pensa a fare marketing per dei prodotti?
In realtà hai l’hai detto benissimo anche nella domanda, una strategia di marketing che va al di là del marketing. Penso che la cosa bella di una startup, è giusto essere ambiziosi, strutturati, adottare un linguaggio, delle dinamiche imparate nel mondo corporate per quanto riguarda il buisness plan, eccetera, la cosa bella delle startup in cui mi trovo molto in generale è proprio la dimensione personale. Le figure anche dei Founders sono importante. Prima di essere un brand che ha una voce sua, siamo noi. Yspot parliamo come parliamo noi. Dal momento in cui personalmente e con i miei soci e come forse è una cosa generazionale, teniamo al fatto di promuovere una certa idea del piacere, a decostruire i meccanismi, ad aiutare ad uscire da schemi mentali. Un interesse che di base all’inizio è personale, il brand, e lì si collega un pochino ai miei studi, e al mio interesse nell’ambito femminista, il brand è un’ottima piattaforma, oltre che ad essere un brand, per parlare di tematiche importanti. Nel definire le tematiche editoriali c’è molta libertà da questo punto di vista e molto distacco dai prodotti. Cerchiamo di fare informazione sui nostri prodotti, ovviamente siamo sul mercato da un po’ più di due anni, stiamo ancora imparando. Ci vengono dati dei feedback interessanti sul fatto che, per esempio, ci sono categorie che sviluppiamo tutti noi che ci dicono “sono veramente ottimi ma dovete fare ancora più educazione, coinvolgere esperti, perché spieghino bene i benefici”. Su questo lavoreremo, ma in generale oltre che ai contenuti legati ai prodotti, spiegare un po’ quale toy può essere adatto se qualcuno ha la valvulodinia, parliamo di cose che nonc’entrano niente, che non sono destinate a vedendere qualcosa ma a creare conversazioni. Ultimamente abbiamo parlare di sex work, che è un topic a cui tengo molto, parliamo veramente di temi molto laterali, a 360 gradi sul genere, relazioni, che non è semplicemente un veicolo per dire “compra questo prodotto”, perché credo che creando questi dialoghi, creando queste community, nasce un interesse per il brand e in un modo quasi natural spontaneo, le persone scoprono i prodotti. Se vogliono acquistare, acquistano, ma non c’è questo marketing aggressivo.
Una cosa che vediamo fare a tanti brand adesso, anche grandissimi brand, anche le case di moda, stanno cercando di seguire quest’idea che si debba cercare di educare, coinvolgere, investire nella cultura per poi posizionarsi come un brand che cares, a cui importa la propria community, ma non sempre è facile farlo. Quindi aver trovato un canale come il vostro, che funziona, che è interessante, è sicuramente molto interessante da vedere anche per chi sta pensando di aprire un brand. Investire nella parte editoriale, investire nella parte di educazione, piuttosto che fare tutto pensando “oddio devo vendere il sex toy”, quindi ogni articolo deve avere un link perché lo devi comprare, ma semplicemente dire “ok, se le persone sono interessate a questo topic, si interesseranno al mio brand e quindi forse un giorno compreranno le mie cose”. Quindi è un modo diverso a cui arrivare allo stesso obiettivo. Alla fine ovvio che un business deve crescere, però è sicuramente un approccio molto interessante per chi vuole forse fare un brand to consumer. Ovviamente fai questo lavoro anche un po’ tabù, non l’hai detto ai tuoi genitori, sono sicura che ci sono risposte diverse quando dici cosa fai, c’è chi è super interessato e chi magari ancora gli viene da ridere perché non è una cosa a cui sono aperti. C’è un tema legato a tutto quello che fai che ti sta particolarmente a cuore? Che sia sull’empowerment femminile, che sia sul messaggio che vuoi che arrivi dal vostro brand?
Sulla domanda, sì, ne ho parlato con mia madre ma effettivamente in generale quando ne parlo con persone con cui non sono sicurissima recepiranno, faccio vedere il profilo Instagram e come ingresso nell’oggetto, subito fa capire il linguaggio, il modo in cui ne parliamo. Temi a cui tengo molto sono tanti, è difficile. Forse la risposta è un po’ trasversale perché non è una tematica ma in generale è decostruire ed eliminare le ingiunzioni che nella sessualità sono molte, ma anche nella femminilità e in molte cose, che sia l’ingiunzione all’orgasmo, perché anche quando si parla di orgasmo, non siamo i primi a parlarne ma forse si è anche creata un certa epoca un discorso quasi xontroproducente. Masturbarsi è figo, per chi è un po’ più grande, che ha un po’ più di trent’anni, Samantha in Sex and the City, si masturba, ha tanti orgasmi. È anche ok non avere orgasmi. Questa cosa di dare una metrica di valore ad un’esperienza sessuale in base al piacere, in base al raggiungimento di un orgasmo o meno è un po’ mentalità che abbiamo cercato di decostruire, perché ancora in molti casi vedevo domande che ci arrivavano “non riesco a raggiungere l’orgasmo”, sembra proprio una sconfitta, sembra che ti toglie una parte di femminilità, che ti stai perdendo qualcosa. Siamo felicissimi quando qualcuno invece dice “ok, ho comprato questo toys, ho raggiunto l’orgasmo che non ero riuscito a raggiungere in rapporti”, questo è anche un dato sul pleasure gap, sul fatto che le donne cis in relazioni etero il raggiungimento dell’orgasmo è molto più basso rispetto a quello per gli uomini.
Poi siamo sicuramente solo all’inizio, finalmente si possono sdoganare certe conversazioni e lo vediamo anche noi come ragazze, da qualche anno se ne parla sempre di più mentre prima era un tabù anche tra amiche. Lo sta diventando sempre di meno. Poi ci sono popolazioni, tipo gli americani, che sono molto più avanti su certe cose, soprattutto in questo mondo sex tech, però c’è ancora tanto lavoro di educazione da fare. Come dici tu, ci sono tanti temi da affrontare. E invece che consiglio daresti a chi vuole un nuovo brand di prodotti che hanno un target Gen Z, Millennials, come lo siete voi?
Sicuramente si lega a quello che dicevo prima, sul fatto di creare un brand che parli la tua stessa lingua, che sia autentico. Penso che questa consapevolezza delle nuove generazioni obblighi le aziende a diventare molto più accountable e la cosa bella di una startup visto che non nasce con tutta una macchina di comunicazione corporate, norme difficili da gestire, di proporre un brand di qui i valori siano i tuoi, qualcosa in cui credi, qualcosa anche effettivamente abbiamo un potenziale di crescita, perché giustamente stai facendo un brand, non stai facendo magazine e se vuoi anche poter avere una piattaforma per parlare delle cose a cui tieni bisogna coinvolgere anche investitori e comunque avere un business con potenzialità di crescita, ma per me sicuramente questa cosa di “il brand sei tu, i valori del brand sono i suoi” e devi proprio comunicare questa cosa ed avere una trasparenza a questo livello che ti rende credibile, ti rende anche simpatico e coinvolgente, non so se mi sono spiegata.
Sì assolutamente, poi la cosa bella di quando uno costruisce un nuovo brand che hai il vantaggio di poter cominciare da subito con i valori a cui tieni, mentre le grosse aziende che sono molto indietro, quando fanno Pride e fanno la capsul o cose così, si vede che lo stanno facendo più per marketing. Devono cambiare tanti modi di fare una cultura aziendale che quando invece parte all'inizio puoi farla partire direttamente con gli standard di oggi e con quello in cui credi oggi. Facciamo la nostra famosa ultima domanda che si applica anche a te anche se non sei nata in Italia, perché sono sicura che hai osservato e diciamo assorbito tantissima italianità negli ultimi anni che hai passato qui e ti volevamo chiedere quindi in che modo la tua italianità ti ha aiutato nel tuo percorso?
Pensa devo dividere la mia risposta in due ovvero prima di Yspot, penso che il fatto quando andavo all'estero e mi interfacciavo in generale con tutti, il fatto di arrivare da Milano e di essere a volte percepita come italiano, perché comunque per un francese o per qualcuno che non sei italiano il mio accento non si percepisce, creava subito una simpatia. Poi comunque nella moda ci sono degli italiani ovunque e quindi il fatto di arrivare su un set, arrivare da un brand e tu subito parli italiano, crea proprio una connessione, un'intesa, una simpatia che aiuta anche proprio a volte a livello professionale ad ottenere risultati, a creare sinergie. Comunque la percezione degli italiani sia come a livello di gusto ti dà molta credibilità, ma anche appunto chiedere connessione istantanee e quello è stato veramente figo. Poi, per quanto riguarda Yspot, penso che poteva non poteva nascere questo progetto in un altro paese e infatti è proprio legato all'Italia, perché sicuramente a livello di estetica, di gusto, di prodotti che sviluppiamo noi, a integratori, tutti questi prodotti che creiamo noi, c'è molta molto savoir faire, un modo di lavorare, la cura dei dettagli, che trovo siano delle qualità molto italiane. Il fatto che appunto l’Italia è anche il posto perfetto perché nasca il progetto. Fossimo stati in America o in altri posti forse non avremmo avuto lo stesso impatto perché qui forse abbiamo proposto una cosa ancora un po’ nuova diversa e l'Italia era il posto giusto per questo progetto.
Grazie Aurelie intanto, ti voglio fare i complimenti per il tuo italiano perché comunque fare delle interviste quando non è la tua lingua natale, parli davvero molto bene italiano quindi grazie, grazie, per essere qui con noi e soprattutto per il lavoro che state facendo. Ce n'è davvero bisogno come abbiamo detto prima di sdoganare questi argomenti di empower, diciamo le donne e la sessualità è una è una cosa fondamentale e importante di cui non ci dovrebbe essere nessun tipo di vergogna e imbarazzo anzi. Quindi ti ringrazio per il lavoro che state facendo in Italia.
Grazie anche a voi per dare attenzione, dare spazio con la vostra analisi di dati diciamo tirare fuori il bello dai progetti che nascono in Italia, quindi grazie per questa piattaforma.