Arianna Ortelli, CEO e Co-Founder di Novis Games

 

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Questa settimana abbiamo intervistato Arianna Ortelli, CEO e Co-Founder di Novis Games, la prima esperienza di gioco completamente accessibile a persone cieche e ipovedenti.
Se una bambina sceglie il calcio come sport da praticare nonostante i pregiudizi che la circondano, si può già intuire il suo carattere forte che la fa pensare fuori dagli schemi. Arianna cresce senza riconoscersi nei modelli convenzionali e matura la determinazione a crearsi le sue opportunità. Arrivata a scegliere l'università punta su economia per mettersi in gioco e apprendere competenze trasversali. Eppure, anche qui, si sente un’outsider. Intorno a lei in pochi hanno la mentalità per fare impresa e si ritrova tra i pochissimi all'Università di Torino a seguire un corso sulle startup. Dopo l’università, anche se non ha le competenze tecniche, Arianna si candida per un bootcamp di prodotti d’azione della Fondazione Agnelli. A sorpresa viene ammessa ed è qui che incontra finalmente qualcuno che condivide la sua passione imprenditoriale. Con Dario Codispoti, futuro socio, germoglia l’idea di quella che sarà Novis Games, una straordinaria applicazione della tecnologia per trasformare l'esperienza di un videogioco da visiva a sonora, rendendola accessibile anche ai non vedenti. In questo episodio Arianna ci racconta di come, partendo da zero e senza fondi, lei e il suo team siano riusciti a passare in pochi mesi da un prototipo sperimentale ad un progetto che sta raccogliendo l'interesse delle maggiori piattaforme di gaming. Nella storia di Arianna e Novis Games troviamo i sacrifici senza rimborso spese, i pivot del business model, la ricerca di nuove competenze e il rapporto con gli investitori: l'esempio perfetto del percorso di una startup. Arianna ci regala infine un grande messaggio motivazionale: le opportunità non capitano, si creano! Ed è per questo che tutti ce la possiamo fare. Ascoltiamo la sua storia.

 

TRASCRIZIONE EPISODIO

Ciao, io sono Inès e io sono Camilla. Benvenuti a un nuovo episodio di Made IT, un podcast dove intervistiamo italiani di successo per scoprire le loro storie e tutti i passi che li hanno portati ad arrivare dove sono. Questa settimana abbiamo intervistato Arianna Ortelli, CEO e Co-Founder di Novis Games, la prima esperienza di gioco completamente accessibile a persone cieche e ipovedenti. Se una bambina sceglie il calcio come sport da praticare nonostante i pregiudizi che la circondano, si può già intuire il suo carattere forte che la fa pensare fuori dagli schemi. Arianna cresce senza riconoscersi nei modelli convenzionali e matura la determinazione a crearsi le sue opportunità. Arrivata a scegliere l'università punta su economia per mettersi in gioco e apprendere competenze trasversali. Eppure, anche qui, si sente un’outsider. Intorno a lei in pochi hanno la mentalità per fare impresa e si ritrova tra i pochissimi all'Università di Torino a seguire un corso sulle startup. Dopo l’università, anche se non ha le competenze tecniche, Arianna si candida per un bootcamp di prodotti d’azione della Fondazione Agnelli. A sorpresa viene ammessa ed è qui che incontra finalmente qualcuno che condivide la sua passione imprenditoriale. Con Dario Codispoti, futuro socio, germoglia l’idea di quella che sarà Novis Games, una straordinaria applicazione della tecnologia per trasformare l'esperienza di un videogioco da visiva a sonora, rendendola accessibile anche ai non vedenti. In questo episodio Arianna ci racconta di come, partendo da zero e senza fondi, lei e il suo team siano riusciti a passare in pochi mesi da un prototipo sperimentale ad un progetto che sta raccogliendo l'interesse delle maggiori piattaforme di gaming. Nella storia di Arianna e Novis Games troviamo i sacrifici senza rimborso spese, i pivot del business model, la ricerca di nuove competenze e il rapporto con gli investitori: l'esempio perfetto del percorso di una startup. Arianna ci regala infine un grande messaggio motivazionale: le opportunità non capitano, si creano! Ed è per questo che tutti ce la possiamo fare. Ascoltiamo la sua storia. Arianna, volevamo partire un po’ dalla tua famiglia. Ci avevi raccontato che sei cresciuta con una mamma infermiera e un papà che fa l'agente immobiliare, un lavoro che prova poca sicurezza economica, quindi ogni tanto si guadagna bene, come si può non guadagnare per tanto tempo e la vostra situazione economica familiare infatti, è stata un po’, cioè molto, altalenante, quando sei cresciuta insomma, e hai vissuto anche dei momenti proprio di difficoltà economica, da bambina. Come ti ha segnato questa cosa e oggi facendo l'imprenditrice non hai paura di ripetere un po’ questa situazione? Sicuramente mi ha segnato e questo l’ho capito un po’ nel tempo. All'epoca non mi rendevo completamente conto di quello che stava accadendo, ma di sicuro, questo mi ha permesso di fare un pochettino più attenzione a come andavo a gestire le mie attività che andavo a fare, anche banalmente i soldi che spendevo da ragazzina. Quindi, in un certo senso, tutta questa situazione penso mi abbia un po’ responsabilizzata. Sicuramente adesso nella vita di tutti i giorni ho comunque un'attenzione forse, da un certo punto di vista, diversa visto quello che è stato il mio essere bambina. Poi penso che siano situazioni che, bene o male, sono capitate più o meno tutti e in un certo modo devo anche dire, però che quello che mi ha insegnato la mia famiglia, mio padre ma anche mia madre, è comunque far fronte alle difficoltà, quindi affrontare i problemi coinvolgendomi, anche nelle decisioni quando ero piccola. Quindi forse la cosa più importante è stata questa: il fatto che abbiano condiviso con me il problema e abbiano cercato di farmi capire che comunque la situazione si poteva sempre affrontare, che le cose importanti erano altre. Poi diciamo che visto la vita da imprenditrice che hai scelto di fare dopo, essere frugali è una cosa molto importante, perché i primi anni soprattutto quando è tutto investimento, si deve vivere su poco. Eri già preparata. Sì, questo sicuramente è stato un punto, perché forse il mio pensiero di iniziare a creare qualcosa di mio, in parte può essere nato da questo. Cioè mi ricordo quando ho iniziato l'università dovevo intanto lavorare e il progetto che sono andata a realizzare era un po’ un qualcosa che mi permetteva di avere un'altra opportunità in futuro. Quindi forse questa situazione ha fatto sì che mi dovessi un po’ arrangiare nella vita, quindi mi ha permesso un po’ di aprire gli occhi. Credere anche di poter fare qualcosa di mio e di doverlo fare per andare avanti. Un'altra cosa che ci è piaciuta molto del tuo percorso è che sei una calciatrice. Sei arrivata fino alla serie B. Il calcio ti ha segnata molto, quindi vorremmo parlarne un po’ e cominciamo da una delle difficoltà che hai avuto. Purtroppo il calcio femminile in Italia è ancora molto arretrato nella mentalità collettiva. Non è uno sport da ragazze, diciamo. Da ragazza hai mai subito discriminazioni legate a questa tua passione per il calcio e come lei affrontate, se lei subite? Devo dire che in questo senso quando ero piccola, insomma, da ragazzina, quando ho iniziato a giocare, il regalo più grande, in questo senso, del calcio, dello sport e del Torino, perché è iniziata così, andando a vedere le partite del Torino, me l'ha fatto il mio papà. Quindi mio padre, dalla sua, mi ha sempre fatto capire che il calcio, lo sport, era qualcosa di normalissimo ed era, anzi, un momento per me. Quando ero bambina di estrema felicità, tranquillità, una cosa che, appunto, faceva parte della mia quotidianità. Forse un po’ le prime difficoltà, tra virgolette, erano quelle date da le altre persone esterne alla mia famiglia, al mio gruppo di amici, che non capivano o non conoscevano tante ragazze che praticavano questo tipo di sport o che erano appassionate di calcio. Quindi ricordo, ad esempio, alle elementari o alle scuole medie il fatto che fossi l'unica ragazzina che giocava a calcio in palestra con gli altri ragazzi all'epoca non era visto tanto come problema, però magari crescendo per me è stato un po’ fattore di difficoltà nel rapportarmi magari con le altre ragazze perché mi sentivo un pochettino diversa in questo senso. Poi crescendo, ammetto, mi sono sempre più avvicinata ad altre persone che facevano quel tipo di vita, quel tipo di sport e quindi quella è diventata la mia normalità. Anzi, questo fatto di essere un pochettino diversa in questo senso, mi ha permesso forse di distinguermi in qualche modo e quindi di farmi sentire anche magari alle superiori come un po’ più originale o comunque che mi contraddistinguesse dagli altri. Quindi l’ho utilizzata, devo dire, col tempo, un po’ a mio vantaggio. La persona poi importante che sono riuscita a convincere che quello che stavo facendo non fosse così strano è stata mia madre, che devo mettere quella è stata la soddisfazione più bella. Quando lei ha iniziato a venirmi a vedere, quando sentivo che ne parlava con le sue colleghe, con le nonne, per esempio, con orgoglio per quello che stava accadendo, ecco il problema diciamo l’ho considerato superato del tutto, tanto più che negli ultimi due anni si è iscritta anche lei si è iscritta in una squadra di calcio di mamme. Questa cosa mi fa tuttora morire dal ridere. Un'altra domanda: come mai deciso di non proseguire il calcio come una carriera? Questo è un tema un po’ delicato. La verità è che tuttora, ma soprattutto cinque, dieci anni fa era molto molto difficile riuscire a vedere il calcio come una professione, soprattutto il calcio femminile e quindi per me non è mai stato un discorso di professione, di lavoro, è sempre stata una passione, è sempre stato qualcosa di importantissimo nel mio tempo libero, che a volte mi impegnava tanto, anche 3-4 allenamenti a settimana, però che ho sempre fatto con leggerezza. Lo vedo un po’ come un fattore positivo-negativo il fatto che all'epoca non fosse ancora una professione. Per fortuna le cose oggi stanno cambiando. Finalmente stanno cambiando e lo si vede anche. Penso in America vada tantissimo il calcio femminile. Tornando un attimo invece agli stereotipi che hai dovuto combattere, diresti che combattere questi stereotipi ti ha aiutata nella tua vita imprenditoriale? Questo è un altro tema su cui di recente ho riflettuto tanto ma penso di sì perché comunque il fatto di essermi anche sentita un po’ un’outsider, essermi dovuta inventare all'inizio della mia vita lavorativa che voleva dire fare banalmente la cameriera, l'animatrice, dare ripetizioni, doversi arrangiare, questo in un certo modo mi è servito, perché mi ha permesso di capire fin dove potessi arrivare, fin dove potessi affrontare un problema che poteva essere economico ma anche iI doversi reinventare di dover imparare a fare qualcosa e dall'altra parte anche il fatto di sentirmi diversa forse nello sport, nell'amicizia nel mio modo anche di vivere, di rapportarmi con gli altri, mi ha fatto pesare meno quella diversità che magari può esserci all'interno del mondo dell'imprenditoria, dell'azienda o di settori come quello dello sport del gaming con cui insomma mi rapporto quotidianamente. Lo vediamo spesso sul podcast che lo sport soprattutto quando è praticato a livello agonistico insegna tantissimo e in un certo senso è più un'ottima palestra per l'imprenditoria. Tu sei d’accordo? E quali sono, per te, le lezioni più importanti che imparato grazie allo sport? Sì, secondo me qualcosa di molto molto importante. È una questione di controllo, consapevolezza, da una parte interna dei propri mezzi, quindi sapere che si può migliorare andando a lavorare su alcuni aspetti del proprio fisico ma anche della propria mente, quindi è resistere alla difficoltà, andare oltre il proprio limite, allenarsi, faticare per raggiungere l'obiettivo, questo secondo me è il primo elemento molto molto importante. E dall'altra parte io ho avuto la fortuna di essere parte di una squadra, questo è un altro elemento credo ricorrente che è importantissimo, perché riuscire ad avere a che fare con persone diverse da noi, ma avere un obiettivo comune nel tempo, negli anni, questo ci permette di, non solo di andare a migliorare in quanto singoli, ma pensare di poter migliorare in quanto gruppo, in quanto squadra. Imparare a lavorare con altre persone, a mettere al centro i problemi, i bisogni di un gruppo anziché solo i propri. Quindi secondo me questi due aspetti: il fatto di migliorare la performance internamente quindi fare forza su di sé, allenarsi, migliorare giorno per giorno e dall'altra parte avere sempre un po’ più visione dell'immagine generale, dell'obiettivo per cui sta facendo qualcosa, di chi sono le persone con cui stiamo andando a raggiungere quell'obiettivo. Questi due aspetti combinati insieme, secondo me, hanno un qualcosa del fare impresa. Tornando un po’ al tuo percorso, sappiamo che quando arrivato il momento di iscriverti all'università hai sofferto moltissimo una scelta di facoltà, anche un po’ per tutte le influenze che ti venivano dalla famiglia, volevi trovare la cosa giusta per te. Ci puoi raccontare un po’ i dubbi che hai dovuto affrontare in quella scelta? Sì, anche questo è stato un tema, penso anche qui, di non essere l'unica, credo che sia normale, soprattutto in Italia, alla fine di questi fatidici 5 anni di superiori, dover fare quella scelta che sembra essere la cosa più importante. Io avevo un po’ il dubbio perché comunque mi è sempre piaciuto scrivere, mi è sempre piaciuta la letteratura, la filosofia e quindi diciamo che come inclinazione personale magari sarei andata anche a studiare lettere, a studiare filosofia perché era una materia che mi appassionava e dall'altra parte avevo un po’ di pressione familiare, con la mamma infermiera, a dire “vabbè però sei bravina a scuola, vai a fare medicina, comunque ti ritagli un suo spazio, hai più sicurezze…” anche qua, tema della sicurezza economica, il tema del dimostrare di poter essere tranquilli, potercela fare, di fare una vita di un certo tipo. Quindi avevo questo tipo di pressione da una parte e dall'altra avevo il desiderio di mettermi in gioco, di pensare di poter fare qualcosa di mio. Dopo una chiacchierata con mio zio ho preso coraggio e ho detto io provo a parlarne con mia mamma perché sapevo che mio padre mi avrebbe tranquilla supportato anche in questa scelta e dopo 5 anni di liceo classico mi scrivo a economia, vediamo, qualcosa imparerò, riuscirò a mettere in pratica qualcosa e piano piano magari mi ritaglierò un mio spazio, avrò possibilità di scegliere più avanti quando avrò gli strumenti anche per poterlo fare. Hai detto nella risposta che hai scelto economia perché volevi fare qualcosa di tuo, quindi sei già partita con una specie di ambizione imprenditoriale o comunque il sogno di forse un giorno fare l'imprenditrice. È così e se sì da dove veniva questa tua ambizione? Penso che fosse proprio data un po’ dalla disperazione ma in senso positivo cioè, il fatto di non riconoscersi da nessuna parte, un tema di modelli anche di role model, qualcosa di cui si parla tanto oggi. Quando sei piccola, quando sei piccolo, comunque e non vedi persone più grandi di te persone, che senti che potrebbero trascinarti in un percorso anche lavorativo e che hanno a che fare con te, ti senti un po’ disperso e quindi l'idea di potermi creare io le opportunità, di poter partire dalla mia passione quindi dallo sport, dalle cose che mi piacciono, mi ha dato un po’ quella motivazione di dire “ok, costruisco una competenza un pochettino più trasversale, un pochettino più ampia e poi la applicherò al settore all'opportunità migliore che mi capita”. Quindi credo proprio che da un certo punto di vista forse è stata la mancanza a volte di opportunità che ti permette di volerla creare dall’altra parte. E quindi sempre su questo filone imprenditoriale, l'università di Torino offriva un corso sulle startup, quindi ti sei inserita subito con molto entusiasmo e sei arrivata in classe ti sei resa conto che solo 10 dei 600 studenti del tuo anno erano iscritti a quel corso e faccio una parentesi, sei giovanissima, quindi non era tantissimi anni fa. Sei rimasta sorpresa e secondo te perché così pochi studenti sono interessati a questo tipo di corso, tipo di percorso? Certo, mi ha sconvolto all'inizio, anzi io mi ricordo proprio l'imbarazzo quando è venuto un referente a lezione a chiedere proprio agli studenti partendo da una domanda “ma chi di voi vuole fare l’imprenditore, vuole aprire una propria azienda, una propria impresa?” Io immediatamente avevo alzato la mano ma lì mi sono resa conto guardandomi intorno che eravamo veramente pochissimi e non sapevo se sentirmi presuntuosa o addirittura stupida per aver pensato di poter fare una cosa del genere. Io credo che si tratti di un problema, ancora oggi, culturale e forse anche o di opportunità che non vengono date, un po’ di mentalità, l’idea di non poter uscire dagli schemi e dall’altra parte l’idea che sia più comodo, sia più facile trovare un posto fisso, un qualche lavoro che ci dà delle garanzie in più. È qualcosa che io capisco benissimo, capisco ancora meglio con gli anni, dopo 3-4 anni di impresa devo dire che ogni tanto il pensiero viene “mah, forse fare 8 ore lavorative e basta, avere della stabilità non è così male”, ecco, mettiamola così, però la cosa un po’ triste, a mio avviso, è che un ragazzo che ha appena iniziato l’università, che dovrebbe aver voglia di spaccare il mondo, di mettere in gioco le sue competenze, non abbia quel desiderio lì. E tu però eri convinta che avresti voluto creare la tua startup, eri abbastanza partita su questo percorso, quindi lo stesso anno hai partecipato a un bootcamp per la prototipazione organizzato dalla Fondazione Agnelli e lì hai conosciuto il tuo Co-Founder Dario ed è nata l’idea di Novis Games, credo proprio già nel bootcamp. Ci puoi raccontare un po’ com’è nata l’idea, come sei arrivata a questo bootcamp, un po’ quella parte della storia? Esatto, anche lì dicevamo che io speravo che andasse bene, devo essere sincera, ma ovviamente me la facevo sotto. Mi ricordo quando ho fatto la candidatura per questo programma, di SEI, Scuola di Imprenditoria e Innovazione di Fondazione Agnelli, dove c’erano pochissimi posti e io ho detto “ma figuriamoci se vengono a prendere proprio me, con tutte le persone che ci sono io sarò l’ultima che avrà opportunità di entrare, ho appena iniziato a studiare, non ci sarà sicuramente spazio per me”, invece devo ammettere che aver avuto quell’opportunità mi ha dato forza, perché mi ha fatto capire che forse se davvero avevo dimostrato che volevo fare qualcosa della mia vita, del mio lavoro, volevo mettermi in gioco, allora dall’altra parte c’erano delle opportunità, bisognava solo cercarle. Quindi quello è stata la prima conferma che stavo percorrendo la strada che forse era la mia. Dall’altra parte mi sono trovata immersa in un ambiente di persone completamente diverse da me. Dario, ma anche tantissimi altri ragazzi che erano presenti durante questo corso, come dicevi bene, di prototipazione, quindi era molto vicino al mondo dell’hardwaristica, del software, io venivo da economia, non conoscevo neanche quel tipo di materie, mi ha permesso di, di nuovo, uscire dagli schemi, avvicinarmi a persone molto diverse da me. Non è stato subito chiaro che quell’idea sarebbe diventata un progetto reale, all’0inizio avevamo immaginato un hardware che permetteva di giocare a distanza utilizzando gli altri sensi per potersi divertire al parco, ad esempio, per poter giocare a tennis all’aperto, facendo attività fisica senza bisogno di utilizzare gli occhi e dopo quelle giornate, ad un certo punto, con il team dell’epoca ci siamo guardati e ci siamo detti “aspetta, però se riusciamo davvero a prototipare quest’oggetto, a realizzare questa cosa, allora stiamo dando un’opportunità di giocare anche alle persone che non vedono”, quindi da lì è nata la primissima idea di Novis Games. Facciamo una piccola pausa per parlarvi di Turnover, l’agenzia nata all’inizio del 2021 che aiuta le aziende a muoversi nel complesso mondo delle vendite online, in particolare su Amazon. Se sei un imprenditore, un manager o semplicemente lavori in un’azienda e vuoi incrementare le tue vendite online, ascolta bene. Turnover gestisce gli account Amazon dei propri clienti per aiutarli a vendere di più e meglio. Per farlo, lavora su diversi ambiti, come ottimizzazione e gestione dei prodotti, creazione e coordinazione di campagne adv, l’analisi di dati per incrementare la strategia di crescita. L’investimento sulla tecnologia è chiaramente centrale. Turnover è infatti proprietaria di due piattaforme: una dedicata alla reportistica e una pensata per la business intelligence. Turnover è parte del Solution Provider Network di Amazon e partner certificato di Amazon Advertising, il programma di intermediari certificati Amazon. Maggiori informazioni su www.digitalturnover.it. Secondo te perché sei stata scelta per questo programma e secondo te perché proprio tu sei riuscita ad avere successa con tutto il tuo percorso? Ti sei mai chiesta questa domanda? A dire la verità è stato tutto estremamente veloce, soprattutto all'inizio, cioè io non mi sono resa conto che le cose stavano andando bene, che ce la stavamo facendo. Ma devo ammettere che tuttora si corre talmente velocemente che non c'è quasi il tempo di fermarsi, di respirare dire “ok abbiamo fatto questo, questo, questo, bene, stiamo andando nella direzione giusta”, perché è una continua rincorsa. Io posso pensare che rispetto magari alle persone con cui siamo partiti, che poi sono cambiate ovviamente nel tempo, perché ormai del 2019 sono passati un po’ di anni, la cosa è sempre stata che io mi sono aggrappata completamente al progetto, ma anche un po’ che il progetto si aggrappato completamente a me. C’è stato un momento in cui davvero, a mio avviso, le persone di Novis coincidevano con il progetto, quindi io mi sentivo, mi son sempre sentita, devo mettere, un po’ e confusa a livello di identità tra chi ero io e chi era il progetto. Perché era proprio parte del mio desiderio di dimostrare qualcosa, di creare qualcosa di innovativo, di portarlo sul mercato e ho sempre avuto fissa questa ambizione, forse è quindi stato questo l'aspetto che ha fatto sì che io magari andassi avanti nel progetto rispetto ad altre persone. E tornando all'idea di Novis Games, perché vi siete concentrati proprio su quell'idea e per “quello” intendo giochi per non vedenti? Che opportunità avete visto? Non avete avuto paura che avresti avuto un mercato abbastanza ristretto per questa tecnologia? Sì, ecco, quello è stato anche, devo ammettere, forse primo il momento dopo il bootcamp in cui ho detto “ha senso, si può fare, bisogna farlo”, ecco, è successo in una delle due associazioni nazionali qua a Torino, nell’associazione UICI, Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti, perché quando abbiamo portato quel prototipo in associazione, abbiamo capito che dall'altra parte c'era un bisogno, c’era una necessità, c'era un mercato. Successivamente, come hai detto anche tu, abbiamo dovuto fare i conti, quindi andare a capire se quello che stavamo approcciando era un mercato che aveva senso o se fosse interessante proporre un altro tipo di soluzione, un altro tipo di idea per risolvere lo stesso problema. Perché comunque sostenibilità vuol dire, sì sostenibilità sociale, ma anche economica del progetto, quindi quella è stata una prerogativa dall'inizio. La cosa secondo me molto molto importante che noi non abbiamo solo colto un'opportunità di mercato, ma anche soprattutto di una tecnologia. Quindi tutto il discorso del suono spazializzato e dell'intelligenza artificiale, del mondo del gaming, della realtà virtuale, della realtà aumentata, era appunto un'opportunità che è ancora più valida oggi ma anche 3-4 anni fa era molto interessante in cui mi sarebbe piaciuto entrare e che credo tuttora possa essere un trend molto molto interessante, una palestra anche per lo sviluppo di tecnologie che poi escono dall'applicazione solo ludica o dall'applicazione solo rivolta alla disabilità visiva. Dopo questo bootcamp cosa avete fatto per far sì che Novis Games diventasse un'azienda? Quindi come avete concretizzato questa idea? Un'idea che chiaramente, tra l'altro, richiede capacità di software development avanzate… tu stavi studiando economia, Dario sì, era un ingegnere, ma tu ovviamente non avevi queste competente tecniche. Come hai affrontato questa cosa? E non hai avuto paura di non saperne abbastanza? Beh, questo è stato un altro tema molto molto importante soprattutto nei primi mesi in cui siamo partiti. Cioè all'inizio era tutto un far funzionare l'idea su carta, poi è arrivato il momento di confrontarsi invece con l'esterno, quindi in primis con gli utenti finali, con le associazioni e poi dall'altra parte con le aziende. Cioè cercare di capire con le aziende, con gli investitori, se quella che era l'idea poteva funzionare, aveva un senso. Se c'erano delle persone anche più esperte di noi chiaramente che volevano mettersi in gioco e darci il loro supporto. Poi progetto nel tempo cambiato radicalmente, cioè se all'inizio con Dario eravamo molto focalizzati sull'hardware, quindi sull'idea di creare proprio un dispositivo, una console, uno strumento per la persona cieca, ipovedente, quando poi ho conosciuto Marco di un'altra associazione, l'associazione Apri e abbiamo iniziato a ragionare un pochettino meglio con la community, abbiamo capito l'importanza non solo di creare le nostre esperienze di gioco senza grafica, ma anche e soprattutto di dare una possibilità alle aziende, agli sviluppatori di rendere accessibili i loro contenuti. Quindi quello nel 2020 secondo me è stato poi lo switch che ci ha permesso nel 2021 di crescere come team e di raccogliere al primo round di investimento un po’ importante che c'ha dato l'opportunità di lanciare un vero prodotto sul mercato italiano. E infatti avete creato questo primo prototipo in meno di sei mesi. Come avete fatto ad andare così rapidamente? E la tecnologia che avevate creato ha funzionato fin da subito? Beh allora, inizialmente abbiamo utilizzato, partendo dal bootcamp moltissime tecniche di prototipazione rapida, quindi proprio stampa 3D, io lo dico sempre, il primo prototipo che abbiamo prodotto nell’associazione a me brillano gli occhi ma pensarci ma all'epoca il mio pensiero era “è una schifezza totale, cioè questi ci tirano dietro questo oggetto e ci fanno anche male” perché era plastica abbastanza dura. Si parlava di una racchetta da ping pong con una scheda hardwino appiccicata sopra, quindi è fuori dal super tecnologico qualcosa di in realtà semplice ma che dava prova di quello che volevamo fare, quel concetto di EVP, di prototipo che dimostra da un certo punto di vista il significato di quello che vuoi andare a portare sul mercato. Nei sei mesi successivi come hai detto benissimo tu, siamo andati a lavorare con un'azienda che ci ha dato una mano a selezionare la componentistica che ci poteva servire a pre assemblarla all'interno di una linea di setup di altro prodotto che quindi ci dava la possibilità di far uscire un prodotto che potesse stare sul mercato senza avere problemi anche a livello di certificazioni, dopodiché siamo andati a distribuire questo prodotto alle prime persone, alle prime associazioni e raccogliere metriche più che altro di utilizzo per capire a livello tecnologico che cosa si potesse fare e come si potesse migliorare. E questo prototipo e magari anche quelli successivi diciamo quando eravate proprio all'inizio, quanto sono costati e con che soldi li avete diciamo pagati? Ok, allora inizialmente per costituire la società abbiamo aspettato il primo investitore, essendo tutti ragazzi che facevano ancora l'università, perché all'epoca non avevamo, io non avevo neanche finito l’università, anzi avevo appena iniziato la magistrale, è stato complicato perché avevamo necessità di realizzare qualcosa, di distribuirla per dimostrare che c'era interesse, dall'altra parte non avevamo i soldi neanche per metterla in piedi questa cosa. Quindi abbiamo lavorato tanto per cercare investitori, per cercare soprattutto è stata competition anche fondazioni che potessero darci una mano, con un grant, con un fondo perduto quindi per realizzare questo primo prototipo. La prima opportunità è arrivata da Social Fair che è un acceleratore a impatto sociale qui a Torino, che con il primi 50.000€ fondamentalmente c'ha permesso di costituire la società e di andare a realizzare questa prima linea di prodotto, all'inizio 10 prototipi se non ricordo male e poi 50 prodotti che abbiamo distribuito. Questo è un punto molto importante perché penso che tante persone non partono per una e una fondamentalmente ragione per cui non partono da molto giovani è perché non sanno da dove prendere questi soldi, ma ne parliamo tanto sul podcast ci sono tanti modi per cominciare senza utilizzare i propri capitali se uno non ce li ha. Però un'altra cosa però importante da non sottovalutare che è un altro punto che la gente magari per quella gente fa fatica a fare questo salto è mantenersi quando una startup non guadagna all'inizio. Tu quindi come facevi a mantenerti mentre lavoravi su Novis Games? Hai dovuto cercare un altro lavoro? Hai fatto lavoretti other side? Il primo anno sicuramente, ma in realtà anche i primi due, se non ricordo male, nessuno di noi aveva un rimborso spese se non di fatto le persone che ne avevano o proprio estrema necessità perché non potevano essere presenti in ufficio magari un certo numero di giorni o settimana, oppure le persone di cui serviva fattivamente la competenza ma che non erano soci non erano founder, quindi sempre le persone di aziende esterne che ci davano delle consulenze, ecco, quelle ovviamente dovevano essere pagate. Per quanto riguarda noi founder, la situazione era ben diversa quindi io quello che dicevo all'inizio ho fatto la cameriera per diversi mesi e ho continuato a fare ripetizioni dove potevo, e ho cercato insomma di arrangiarmi per riuscire poi a fine giornata ad arrivare serena ad avere anche la tranquillità per potermi permettere di fare Novis. Di sicuro non è stato semplice ma non lo è per nessuno credo. Dall'altra parte credo che se hai un progetto, un qualcosa a cui tieni veramente, il tempo e lo spazio lo trovi ed è bello secondo me questo, cioè aiutare i ragazzi a ritagliarsi quell’opportunità. Oltre a questo ci sono state delle grandi difficoltà che avete dovuto affrontare? Sei sempre stata convinta che il progetto sarebbe andato avanti? Ci hai spiegato anche che eri molto attaccata al progetto e che eri molto coinvolta, quindi hai sempre visto dovrà sarebbe andato questo progetto? Beh, no, devo ammettere che come dicevo prima le cose negli anni sono cambiate diverse volte, quindi noi siamo partiti facendo hardware, per esempio, siamo partiti con certe competenze all'interno del team, abbiamo costituito la società in sei soci, oggi siamo tre soci, quindi le cose sono cambiate. Noi, per esempio, abbiamo avuto grossa difficoltà a capire dove posizionarci esattamente, cioè all'inizio se volevamo fare un po’ tutto, volevo fare giochi, volevamo fare la console, volevamo aiutare le aziende. Oggi abbiamo capito che, a nostro avviso, fare una piccola parte della filiera, cioè risolvere un piccolo problema che è quello dell'accessibilità all'interno del gaming, è lì che crediamo ci sia il valore più grande quindi non facciamo più cioè facciamo anche giochi, per carità, continuiamo a sviluppare anche esperienze di gioco interno, ma non è quello il nostro business. Il nostro business è dare uno strumento alle aziende, quindi attraverso la nostra tecnologia, non solo tool, di aiutare gli sviluppatori a creare una versione accessibile del loro videogioco. Tutto questo processo che oggi è scattato come un click ed è qualcosa di molto automatico, automatizzato, è stato un processo lungo, di mesi se non di anni, del trasformare poi un prodotto in un altro. Quindi forse la facilità e anche il bello della startup è quello, che hai l'altra capacità di riadattarsi e ad andare dove ti porta il mercato e dove ti porta il cliente. Quello quello che in gergo startup si chiama market fit, quindi ti dicono sempre che devi trovare product market fit, quindi puoi avere un'idea fantastica ma poi quando inizi ad implementarla come ci hai raccontato prima con un MVP e poi vedi come va il prototipo, poi devi capire “ok come lo usiamo? Come lo pitchiamo? Come possiamo entrare in un mercato reale in cui questo prodotto deve funzionare, deve essere comprato, deve essere usato?” e quindi il processo come spieghi è molto lungo ma è importante, come lo siete stati voi, di essere molto flessibili e di essere pronti a cambiare magari un pochino direzione anche se eri convinta che quella sarebbe stata la strada di dire “ok però potrebbe funzionare anche cosi” e poi adattarsi a quello che uno vede poi nel riscontro con gli utenti, con le aziende, con gli investitori. È una strada che sono sicura molti di quelli che hanno fatto startup riconoscono e infatti una parte importante anche del vostro percorso è che nel 2020 siete riusciti a tirare su 170.000 € dal fondo Digital Magics, che un fondo molto importante, come cambiato il progetto con la loro entrata? Ecco allora devo mettere che anche in quella situazione è stato subito chiaro che avevamo di fronte un investitore serio che ci stava dando un'opportunità in quel momento ma che ci avrebbe anche supportato in un momento futuro quindi chiaramente il mood era alle stelle, dall'altra parte sono iniziate ad arrivare anche delle responsabilità diverse, perché comunque quando la cap table inizia a frammentarsi, significa che non sarà più di gestire solo il tuo rapporto con i soci che sono membri del team, si tratta aver fatto entrare all'interno della tua azienda, aver dato un pezzo di fatto, della tua azienda a una persona che ha un potere contrattuale comunque molto alto. Nel senso che ti sta dando un'opportunità e dall'altra parte vuole vedere come questa opportunità cresce. Quindi devo dire è stato un processo molto importante anche per noi, per rendere da un certo punto di vista anche più serio il modo in cui venivano rendicontate le azioni che andavamo a svolgere. Come venivano raccolte le metriche per far capire internamente ma anche all'esterno, in che direzione stava andando il progetto. Dall'altra parte c'è stata anche una grossa occasione di confronto con altri partner di digital così come con aziende e visibilità all'esterno che ci ha permesso di attrarre nuovi investitori nuove opportunità. Infatti da lì che è arrivata l'opportunità di andare a lavorare con Microsoft ed entrare in questo programma di accelerazione che si è concluso quest'anno di quei cloud. Secondo me hai detto una cosa molto importante all'inizio della risposta che è quando entra un fondo a diventure capital che ha delle richieste, cioè vuole vederti crescere ad una certa velocità, vuole poi per riprendere il proprio investimento entra una pressione diversa perché non è più diciamo, ovviamente non è mai un gioco, però ti rendi conto che hai determinate responsabilità e che hai un partner importante al quale devi rendere conto, quindi sicuramente anche solo quel fattore cambia molto l'assetto di dove uno cerca di andare. E ci hai parlato un po’ di questo nuovo programma con Microsoft, ci vuoi dire un po’ di più di a che punto siete adesso e quando saranno pronti i vostri giochi per il grande pubblico? Beh, allora, appunto abbiamo da poco concluso il programma di accelerazione che aveva come partner Microsoft. Oggi è Retec quindi Officina Grandi Riparazioni di Torino e Treeforvictins che è una grossa software house italiana. È stato un vero e proprio successo e una vera opportunità per noi partecipare, perché siamo riusciti a entrare in contatto con praticamente tutte le aziende mondo gaming italiano e gorsse grosse aziende e opportunità anche fuori dall'Italia. CI ha dato quella competenza gaming a livello proprio di kill hard che non avevamo perché devo ammettere che a livello di programma eravamo più skillati sulla parte come dicevo inizialmente hardware e software, invece ci mancava un po’ una competenza anche di game design che abbiamo maturato durante il programma, ma anche soprattutto per un discorso di match making, c'è stata data l’opportunità di iniziare a lavorare con alcune delle aziende che abbiamo conosciuto e quindi rilasciare oggi per la prima volta questo strumento. Che cosa stiamo facendo? in che cosa consiste fondamentalmente questo tool? Abbiamo un software che va a mappare gli elementi a schermo attraverso l'intelligenza artificiale del videogioco che è stato prodotto da un'azienda terza e restituisce una versione sonora, un layer sonoro, noi lo chiamiamo una sorta di linguaggio dei suoni, un vocabolario di suoni che insieme alla comunità di ciechi e ipovedenti abbiamo realizzato per permettere anche una persona non vedente di andare a giocare allo stesso videogioco a cui noi giochiamo guardando graficamente quello che c'è schermo, utilizzando solamente l’audio 3D spaziale e poi anche le vibrazioni. Quindi avere idea dell'ambiente virtuale utilizzando il suono, quello che insomma già sapevamo fare ma appiccato al videogioco tradizionale. Oggi stiamo rilasciando questo tool alle prime 10 aziende, software house diciamo più piccole, con l'idea di avvicinarci invece ai player un pochino più importanti, più strutturati del mercato quelle 20 aziende che lavorano su un fatturato di insomma 200 miliardi di euro, che il valore del gaming generano l’80%. Certo, quando lo descrivi così uno si rende conto della difficoltà, della tecnologia, che si è andati a creare in così poco tempo. Quindi se lo capisco nel modo giusto e correggimi se non è così praticamente avete prodotto un traduttore di immagini, quindi questo vostro software può tradurre qualsiasi gioco in suoni e vibrazioni, così che diventano molto più accessibili a persone cieche e ipovedenti. Esatto dà la possibilità in maniera più veloce, più automatizzata possibile di trasformare un videogioco grafico, in un videogioco sperimentabile tramite il suono. E invece a livello di numeri quante persone non vedenti o ipovedenti ci sono in Italia o nel mondo? Cioè ci può dare qualche numero anche solo per il vostro target? Certo, allora nel mondo ci sono 253 milioni di persone cieche e ipovedenti gravi, queste diciamo che oltre 50 milioni hanno meno di cinquant'anni e si trovano nei Paesi industrializzati o via di sviluppo. In Italia parliamo invece di un milione e 600 tra persone cieche e ipovedenti gravi. La maggior parte di loro hanno supporto delle principali associazioni nazionali, tramite le quali riusciamo a dare l'opportunità agli sviluppatori di far testare il loro prodotto, far provare il loro giochi, però ci sono ancora tante persone cieche e ipovedenti che appunto, non solo non hanno accesso al mercato dell'intrattenimento digitale, ma hanno proprio anche difficoltà a utilizzare prodotti che oggi sono all'ordine del giorno, proprio perché c'è una grossa mancanza di accessibilità del mondo digitale. Stiamo dando un’opportunità agli sviluppatori e alle aziende di accedere a questo grosso mercato, non solo creando un qualcosa di nuovo, ma anche soprattutto rendendo accessibile qualcosa che hanno già, quindi questo secondo me è il bello del prodotto per come è pensato oggi, che non ti stiamo chiedendo di realizzare una cosa apposta per la persona cieca e ipovedente, ma stiamo dicendo che il tuo prodotto deve essere fruibile anche senza la vista, deve essere in grado anche una persona cieca, non vedente, di utilizzare un tuo prodotto. Così puoi incrementare il tuo fatturato ma anche soprattutto poi a dettare chiedere le linee guida, puoi dimostrare di essere sostenibile, di fare la sua parte per fare del tuo e non creare un impatto negativo sul mondo con la tua azienda. Tornando alle domande più personali, da quando hai iniziato Novis Games hai partecipato a molte conferenze, sei stata riconosciuta come una figura femminile di rilievo nel mondo della tecnologia in Italia. Che messaggio è importante far passare per te quando partecipi a queste conferenze? Beh allora io in un certo senso devo dire parto quasi sempre dal “tutti lo possiamo fare” che è la cosa più bella secondo me, più potente che mi è stata data quand'ero piccola ma veramente quando ero piccola piccola. Quando a 12 anni 13 anni mi hanno detto che potevo giocare a calcio ecco, il motivo per cui anche a me piace parlare di tecnologia, fare comunicazione, parlare di imprenditoria femminile è perché torniamo al discorso dell'inizio: è importante dare un modello e dare un'opportunità anche solo di credere nelle proprie potenzialità, soprattutto alle persone più giovani. Quindi quando si tratta di parlare del progetto nelle scuole o di aiutare altre startup, altre imprese che sono all'inizio, noi, devo dire, siamo sempre in prima linea perché credo che sia quello il regalo più bello che possiamo fare. E non stiamo facendo solo un regalo, diciamo, alle persone con cui condividiamo magari la nostra esperienza ma dall'altra parte ci stiamo facendo un regalo a noi, al nostro Paese, perché se supportiamo le idee nuove e valorizziamo le persone che oggi vogliono mettere in gioco, allora abbiamo un ritorno poi direttamente sulla nostra vita. sulla nostra capacità di valorizzare quello che abbiamo in Italia e non solo. Sì, poi una cosa che si vede molto per esempio in Francia, che sono magari cinque anni davanti a noi è che a un certo punto tutte le persone che andavano nelle buone università, prima volevano andare nelle grosse Corporation, come magari ancora in Italia c'è questa cosa, e poi si è visto più un trend che tutta gente che invece va nelle top università francesi vuole o fare la propria startup, o andare in start up. Sta cambiando, stiamo vedendo sempre più storie di successo, di startup che crescono, vedono giovani che ce la fanno e questo è, come dici tu, il messaggio bello: se ce la poi fare tu che sei ancora una ragazza super giovane, ce la possono fare altre ragazze, quindi anche speriamo attraverso il nostro podcast, speriamo vedere questa motivazione e ispirazioni ai nostri ascoltatori. Invece tu hai una stella polare, un motto, un pensiero, qualcosa che segui sempre quando magari hai dei dubbi? Ce n'è più di uno. Uno dei primissimi che mi avete fatto venire in mente voi dal racconto anche di quello che è stato progetto all'inizio è che le opportunità non capitano sei tu che te le crei. Questa è una cosa che in me ha scatenato una forza pazzesca ed è sempre quel discorso del poter credere di avere controllo sulla propria vita. C’è il bello e il brutto di questa cosa. Cavolo, la responsabilità da quando mamma e papà litigano perché siamo in difficoltà, quello non è bello però dall'altra parte ci tutt’altro cioè il “ce la posso fare”, “me lo sono meritato” anche. quindi lascia stare quella vocina nella testa che mi dice “no non ce la farai” “non è il tuo momento” “non è merito tuo” Quindi, secondo me, è entrare sempre di più in questo tipo di ottica in cui abbiamo un impatto con quello che facciamo, le nostre azioni hanno una conseguenza, nel bene e nel male le possiamo controllare è uno dei mantra credo della mia vita negli ultimi anni. Bellissimo, bellissimo, ci piace sempre fare questa domanda sui mantra, sui motti perché anche noi ne abbiamo. Magari cambiano anche anno su anno, però sono importanti. Siamo arrivate alla fine della nostra intervista. Finiamo sempre con la stessa domanda che chiediamo anche a te ovviamente: in che modo la tua italianità ti ha aiutata nel tuo percorso? Anche qua si ritrovo un po’ un filo conduttore dall'inizio della storia. Il fatto di essere italiani, il fatto di sentirsi piccoli, ma un po’ speciali. Io nel fatto di essere la piccola ragazzina secca secca che giocava a calcio alle medie con i maschi, mi sono sentita un po’ italiana nel mondo, quindi un po’ diversa, non sempre super accettata, però dall'altra parte convinta di potercela fare di essere a modo mio un po’ unica, un po’ speciale, quindi forse in questa cosa qui, ecco ci trovo l'italianità giusta che ci serve. Grazie Arianna, grazie per averci raccontato la tua storia e soprattutto per aver raccontato come la tua diversità diciamo ne hai fatta la tua forza. Tante persone magari si fanno abbattere da dalle diversità o dalle difficoltà o anche da bullismo che posso provare da piccoli, tu invece ne hai proprio estratto la tua forza, hai creato diciamo personal brand anche unico ed è bellissimo e ci vogliono più persone diverse, meno pecore che fanno tutte le stessa cosa nel mondo. Grazie mille, grazie mille a voi per l'opportunità, sono molto contenta di essere parte anche del vostro progetto. an image into the scroll box.
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